**Diario Personale**
Era un settembre umido e grigio quando tornai a Milano dopo tre settimane dalla campagna. Avevo passato l’estate con mia mamma, riempiendo lo zaino di conserve, marmellate e quei piccoli gesti d’amore che solo una madre sa dare.
Scesi dall’autobus in Piazza Cadorna, esausta, il peso dello zango improvvisamente raddoppiato. Mi trascinai fino alla fermata del tram, posando tutto sulla panchina con un sospiro di sollievo. Tornare in città mi dava sollievo, nonostante i sacrifici. Lavoravo di notte per pagare quel minuscolo bilocale in periferia, ma era mio, lontano dal caos del dormitorio universitario. Le finestre affacciavano su un terreno incolto, oltre il quale si stagliava un bosco. Di notte la tranquillità era assoluta, ma all’alba la luce riempiva ogni angolo.
Un gemito sottile mi distolse dai pensieri. Mi chinai e sotto la panchina vidi un muso affilato e due occhi grandi, spaventati. Un bassotto, legato al palo con un guinzaglio. Si ritrasse quando cercai di avvicinarmi, tremando come una foglia.
“Non aver paura,” sussurrai, tirando piano il guinzaglio. Riluttante, sbucò fuori, pronto a rifugiarsi di nuovo alla minima minaccia. Ma io tenni saldo il guinzaglio.
Respirava affannosamente, la lingua penzoloni. Quel agosto era torrido, e lui cercava solo un po’ d’ombra. Capii che aveva sete. Vicino c’era un chiosco.
“Un’acqua minerale piccola, per favore,” chiesi alla commessa, un tipo burbero. “Avete per caso una lattina vuota?”
Lei alzò un sopracciglio. “Meglio un bicchiere di plastica?”
“No, è per il cane laggiù. Sa da quanto è lì?”
La donna sospirò, guardando verso la panchina. “Questa mattina ho visto un uomo legarlo e andarsene. Gente senza cuore. Tieni, è sporca ma serve.” Mi passò una lattina di tonno.
Pagai l’acqua, cara il doppio che al supermercato, e tornai dal bassotto. Riempii la lattina e gliela porsi. “Bevi, su.”
Esitante, si avvicinò e cominciò a leccare rumorosamente. Mi chiesi cosa farne. “La notte i randagi ti faranno a pezzi,” dissi, mentre annotavo il mio numero su un foglietto da lasciare al chiosco. Lo slegai e lo trascinai sul tram, pagando per due. Nessuno protestò.
A casa si rintanò nell’ingresso, diffidente. Gli preparai una cuccia con una coperta, e lui vi si acciambellò subito, osservandomi con quegli occhi grandi.
“Come ti chiamo?” Provai nomi a caso. “Felice?”
Abbaiò.
“Felice sia.” Abbaiò di nuovo. “Davvero capisci?”
Quella notte sentii i suoi passi sul parquet. Si era avventurato in salotto, ma al mio movimento tornò di corsa nella sua cuccia. Poi, giorno dopo giorno, si abituò. Mi aspettava ansioso quando tornavo, scodinzolando felice.
Lo portavo a passeggiare sul terreno incolto, liberandolo lontano dalla strada. Mi stupivo di come corresse con quelle zampe corte nell’erba alta.
Poi ricominciarono le lezioni. Lavoravo di notte, e Felice restava solo per ore. Ma quelle domeniche sul terreno incolto erano tutto.
Finché una mattina, correndo verso il bosco, il suo abbaiare si trasformò in un urlo soffocato. Lo trovai trafitto da un ramo acuminato, mentre tre ragazzi mi fissavano con occhi vuoti. Il più alto estrasse il ramo, e il sangue zampillò.
“Era lui!” gridai al poliziotto, riconoscendo quello sguardo gelido due settimane dopo, quando il ragazzo si schiantò sotto un’auto.
E poi, una domenica piovosa, squillò il citofono. Alla porta c’era un uomo con una borsa. “Non avevo con chi lasciarla,” disse.
Aprì la borsa. Un muso affilato sbucò fuori. “Ho pensato che una femmina sarebbe stata diversa. Si chiama Fiamma.”
La strinsi forte mentre mi leccava il mento. Non assomigliava a Felice, se non per il colore. Era testarda, dormiva nel mio letto e rosicchiava le scarpe.
Ma quando correvamo nel parco con Yari, ridendo come pazzi, sentivo che Felice era lì, in qualche modo. E forse, finalmente, anche io ero a casa.