LA STORIA DI UN FERMATORE

C’era una volta un contadino in un piccolo paese della Toscana. Uno semplice, senza tanti soldi. Aveva una casa vecchiotta e un po’ di animali: due mucche, tre capre, tre anatre e una decina di galline che gli facevano le uova. Poi c’era anche un pezzo di terra, giusto per crescere granturco, patate e quel che capitava, insomma, per tirare avanti. E poi ancora: un vecchio trattore nella rimessa, gli attrezzi per lavorare la terra e… gli animali che lo adoravano. Perché lui li trattava come fossero famiglia. Parlava con loro, divideva il suo cibo, e se qualcuno si ammalava, lo portava in casa e lo curava come un figlio.

Gli altri contadini della zona lo prendevano in giro. “Dai, vendili tutti al macello!”, gli dicevano. “Con quei soldi potresti comprarti macchine nuove, non dovresti sfamarli, metteresti da parte qualcosa e forse… forse qualche donna ti degnerebbe di uno sguardo. Così com’è, chi ti vuole, poveraccio?”

Lui però non ci stava. Sorrideva e rispondeva sempre: “Non posso! Sono la mia famiglia.”

La sera, all’osteria dove i contadini andavano a bere un bicchiere, queste parole finivano per far ridere tutti. Si beveva, si giocava a biliardo, e c’era pure una piccola band che suonava vecchie canzoni popolari. E tutti ballavano. Anche le cameriere, le mogli dei contadini, chiunque. Tranne lui. Non aveva nemmeno un paio di scarpe decenti per mettersi in pista.

Ma c’era una cameriera che lo guardava. Un uomo tranquillo, con occhi buoni e sempre un sorriso. Più di una volta aveva provato a trascinarlo a ballare, ma lui diventava rosso come un peperone, infilava i piedi sotto il tavolo e borbottava: “Scusi, signorina, forse ho bevuto troppo, mi gira la testa.”

“Ma che dice?!”, sbuffava lei. “Ha bevuto un solo bicchierino!”

Uno degli altri contadini allora le spiegò: “Tiene in casa una mandria di bestie che fa fatica a mantenere. Noi gli diciamo sempre di venderle al macello, sarebbe più facile per lui. Ma quello testardo risponde: ‘Sono la mia famiglia’.”

Uno rise e provò ad abbracciare la cameriera. Ma in Toscana, sai com’è, le cameriere non sono tipo da farsi mettere le mani addosso. Con un gancio destro, il poveretto finì a terra, e tutto l’osteria rise di gusto.

La cameriera però cominciò a guardare il contadino con occhi nuovi. Cercava di rifilargli panini gratis, ma lui si vergognava e rifiutava. Chissà… forse era amore non corrisposto, o forse reciproco ma lui si sentiva un peso. Un contadino povero che faticava a tirare avanti, insomma, non era proprio un gran partito.

Poi arrivò il tempo della semina, e gli animali lo seguivano ovunque, come se volessero aiutarlo. E il cane, Fido, qualche volta lo portava con sé all’osteria, lo nascondeva sotto il tavolo e gli dava i panini gratis. Lui non li mangiava, li dava al cane.

La cameriera lo vedeva e non sapeva se arrabbiarsi o commuoversi. Tante volte le veniva voglia di andargli vicino, stringerlo e dirgli: “Ma perché non mi guardi? Dai da mangiare a Fido, e a me neanche un bacio?”

Ma non si sa come sarebbe finita la storia, se una sera, mentre il contadino riposava sulla panchina in cortile circondato dai suoi animali, non gli fosse venuto un gran male al cuore. Cadde a terra, e gli animali si misero a belare, muggire, starnazzare e abbaiare come matti.

Fido però rimase calmo. “Zitti tutti!”, abbaiò. “Il cuore batte piano… serve aiuto subito. Io corro all’osteria! Voi restate con lui.”

E via che parte, di corsa. Non era lontano, ma ci mise comunque mezz’ora. Quando arrivò, la band suonava a tutto volume e la gente ballava al ritmo di vino e grappa clandestina. Nessuno lo sentì abbaiare.

Finché… BAM! Il portone dell’osteria volò via, messo giù dalle due mucche che irruppero dentro. La musica si fermò. E poi? Tre capre, tre anatre, una decina di galline e due gatti fecero irruzione, creando il finimondo.

“Ve l’avevo detto di non lasciarlo solo!”, ringhiò Fido.

La gente capì che era successo qualcosa di grave. Caricarono tutti sugli Ape e corsero a casa del contadino. Per fortuna era ancora vivo. Lo portarono all’ospedale, mentre la cameriera, che per l’occasione si licenziò, rimase a badare alla casa e agli animali.

Ogni sera andava a trovarlo. Lui arrossiva, si scusava e prometteva di ripagarla. “Ma per favore… non abbandonare i miei bambini”, le diceva.

Un mese dopo, quando tornò, non riconobbe più casa sua. La cameriera aveva venduto la sua, e con quei soldi aveva ristrutturato tutto e comprato macchinari nuovi.

“Non ho i soldi per ripagarti…”, sussurrò il contadino, togliendosi il cappello. Gli animali gli si strinsero attorno.

“Posso unirmi?”, chiese lei.

Lui l’abbracciò.

Gli animali li guardavano, felici. Si sposarono e lavorarono insieme, dividendo le fatiche. Aprirono anche un allevamento di maiali (che però lei gestiva da sola). “Vattene!”, gli diceva. “Se ti lascio fare, li alleverai e poi li lascerai liberi nei campi. Io invece devo restituire il prestito alla banca!”

Lui sorrideva, andava a sedersi sulla panchina in cortile, e le mucche gli appoggiavano la testa sulle spalle mentre raccontava storie. Lei lo guardava da lontano, sorrideva e pregava Dio che quel momento non finisse mai.

E la favola, cosa voleva insegnare? Ah già… l’amore, sempre quello.

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