La storia di una madre e dei suoi piccoli roditori

Francesca e i suoi topolini

Tengo un blog, sono una psicologa e scrivo di me.
Qualche settimana fa ho conosciuto una ragazzina, seduta su una panchina al parco, che dava da mangiare il pane ai piccioni…

Era molto socievole, e al terzo incontro mi sono resa conto di chi mi ricordava: me stessa.

I suoi genitori si sono separati, sua madre si è risposata ed è andata a vivere all’estero, suo padre vive con un’altra signora (così mi ha detto lei, la bimba si chiama Francesca).

Il papà e Alina hanno avuto un bambino, l’hanno chiamato Gabriele…

Guardavo quella piccola e vedevo me.

Come posso aiutarla? Come fare perché a trentacinque anni non scriva testi come questi?

“Fra, lavoro al ***, vuoi imparare a disegnare?”

“Sì,” annuisce entusiasta.

La accompagno a casa e propongo alla giovane e affaticata donna che sua figlia frequenti il nostro laboratorio. Fingo di non sapere che è la matrigna…

“È totalmente gratuito, serve solo il permesso dei genitori,” mento.

“Io non sono sua madre, va bene, stasera viene mio marito e ne parliamo.”

Il giorno dopo, Francesca arriva in laboratorio.

Cerco di guidarla con delicatezza, la bambina disegna benissimo e sa anche cantare.

Parlo con i colleghi e Francesca viene accolta ovunque sia possibile.

Non ditemi che è impossibile.

Se lo vuoi davvero, tutto è possibile…

Cerco di regalarle ciò che non ho avuto io: compagnia, la consapevolezza di essere importante in questo universo, e non solo una bambina diventata improvvisamente di troppo.

Tra me e questa piccola è nata una connessione, il padre e la matrigna credono che io sia un’educatrice assegnata a loro figlia.

Sono ingenui o… indifferenti?

Probabilmente quest’ultimo. Francesca è un peso, un residuo della vita passata dell’uomo. E dove metterla? Tollerarla è l’unica opzione.

La madre si è tirata indietro, manda soldi, vestiti, viene una volta all’anno, ma non la porta con sé.

Perché?

Perché ha un marito che non vuole figli non suoi, avrà i propri…

E il padre? Lui, in fondo, ama Francesca… è un eroe, che si sobbarca questo peso…

Per me Francesca è stupenda, e lo è anche per gli altri bambini, per le maestre nel nostro centro.

Ma com’è a casa? Forse insopportabile, cattiva e pungente, perché è un peso.

Di troppo e fastidiosa per tutti.

Proprio come me…

“Anna, perché non ti sposi con Luca?”

“Cosa? Di che parli?” la guardo stupita. Da dove ti è venuta questa idea?

“Be’,” scrolla le spalle, “tutti vedono che lui ti ama, ma tu sei così… Regina delle nevi…”

Lì lavoro per passione, diciamo così… Sto cercando di guarire me stessa.

Ma non riesco ad aiutarmi, ho aperto questo blog, ho osato raccontare tutto perché ho bisogno di aiuto… Mi butto ad aiutare gli altri, tranne me.

In Francesca ho visto quella bambina che tanto aveva bisogno di aiuto.

Ho provato, davvero, a sistemare le cose con entrambe le mie famiglie.

Mio padre, sua moglie e mia sorellastra… beh, non proprio mia sorella, anzi, per niente… Loro… Mio padre ha avuto il coraggio di dirmi di non chiamare, non venire, non scrivere.

“Serena non vuole,” mi dice, evitando il mio sguardo. Io ho tredici anni, ginocchia appuntite, mani grandi su polsi sottili che sembrano artigli di granchio, allora mi vedevo così: una piccola mostruosità. Come si può amare una così?

“Papa’… ma io sono tua figlia, Serena è figlia di tua moglie,” provo a dire.

“Capisci, è un’adolescente, è un periodo difficile, l’abbiamo persino portata dallo psicologo, ha bisogno di essere circondata d’amore, capisci?”

“Sì, papà. Certo, va bene.”

Mia madre, il mio patrigno e mio fratello vivevano la loro vita. Ridevano alle battute, ma quando entravo in stanza, il silenzio.

Fingevano di essere contenti di vedermi, ma io sentivo che la mia presenza li opprimeva.

Sono sempre stata sola.

Eppure desideravo solo essere notata, amata.

Mio padre diceva che Serena studiava male.

Allora io avrei studiato benissimo, così avrebbe visto che ero la mejor, che non davo problemi… Non lo notò.

“Voglio diventare psicologa,” mi dicevo, così mio padre sarebbe stato fiero.

Non lo fu. Sparì dalla mia vita.

Ho passato la vita a cercare di piacere a tutti, a essere comoda, come voleva mia madre.

Ero una figlia perfetta, si vantava con le amiche: “Anna è così ordinata, cucina, pulisce, badacchiera al fratello…”

Non riesco a costruire relazioni.

Perché…

Perché soffocavo i miei uomini d’amore, di sospetti, di gelosia… Aiutavo gli altri, ma non me stessa.

Sapevo di non essere stata amata abbastanza, ma la vita va avanti… E io non riuscivo…

Pensavo persino di avere un figlio, da sola, ma…

E se non fossi riuscita ad amarla? Pensavo sempre a una femmina.

Un’altra bambina indesiderata, di troppo.

Torno alla realtà.

“Anna, vai a cena con Luca?”

“Quale cena, Fra?”

“Oh, ho parlato troppo… Lui ti inviterà, fai finta di essere sorpresa.”

“Va bene.”

E Luca davvero mi invita a un ristorante, e non ho paura. Francesca mi ha regalato un portafortuna: un topolino con un pezzetto di formaggio.

L’ha fatto a laboratorio.

Mi ha commosso.

Con Francesca imparo a vivere di nuovo, come si deve.

Non so essere leggera.

Non so flirtare, ammiccare, parlare agli uomini con quella “scintilla.” Ma con Luca… con Luca è facile.

Non pretende nulla.

Siamo in un ristorantino con luce soffusa e foto in bianco e nero alle pareti.

Il lampione fuori oscilla al vento.

“Ti piace qui?” chiede.

“È accogliente.” Bevo un sorso di vino. Bevo raramente, ma stasera sì. “Sai, mi sento come a sedici anni, come se fossi scappata da scuola…”

Lui sorride.

“Anna,” fa una pausa, “da tempo volevo dirti… Non devi essere forte. Non per me.”

Taccio. Non perché non sappia cosa dire, ma perché, per la prima volta dopo anni, voglio solo ascoltare. Non spiegare, discutere, mostrarmi intelligente o stabile. Solo essere.

Il giorno dopo arrivo in laboratorio presto. Sistemiamo i pennelli, la carta.

Entra Francesca raggiante.

“Anna, sai, ieri papà e Alina hanno giocato con me a parole. Ho vinto io!”

“Brava!”

“Poi abbiamo fatto i pancake! E poi…” si interrompe, emozionata, “Alina ha detto che sono come una figlia per lei.”

Mi si stringe la gola.

“Sai perché è successo?”

“Perché tu mi hai insegnato che se vedi il buono negli altri, loro lo sentono.”

In quel momento capisco: anch’io sono cambiata. Attraverso Francesca. Preoccupandomi per lei. Sentendo che si può essere importanti senza salvare nessuno, solo stando vicini.

Quella sera apro il blog. Scrivo un post. Non perfetto, non intelligente, non impeccabile dal punto di vista psicologico, ma vivo.

A volte il percorso verso se stessi passa attraverso qualcun altro.

Non so come finirà la mia storia.

Ma oggi ho lasciato andare uno zaino pesante del passatoE mentre guardo il topolino di pezza legato allo specchietto dell’auto, finalmente capisco che la felicità non è qualcosa che si ottiene, ma semplicemente qualcosa che si sceglie di sentire.

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