In un piccolo paese di mare, dove il profumo del mare si mescola al grido dei gabbiani, io, Sofia, incontrai il mio primo amore ai tempi della scuola. Si chiamava Matteo, ed era il ragazzo della mia migliore amica. Non osavo nemmeno sognarlo, e lui non sembrava notarmi. Le nostre strade si separarono, e lo dimenticai, fino a quando il destino non ci fece incrociare di nuovo nella grande città, dove entrambi studiavamo all’università.
«Sofia, sei sempre la stessa bellezza», sorrise Matteo quando ci incontrammo per caso in un bar. Le sue parole mi fecero battere il cuore.
«E tu lo stesso chiacchierone», risi, sentendo una scintilla tra noi.
«Ricordi che ti piacevo?», mi strizzò l’occhio.
«Forse non mi eri indifferente», ammisi, ma subito cambiai discorso.
Parlammo per tutta la sera, ridemmo e ricordammo gli anni scolastici. Matteo mi accompagnò alla residenza universitaria, e nei giorni seguenti ci vedemmo ancora un paio di volte. Poi sparì, come svanito nel nulla. Terminai gli studi, tornai nella mia cittadina, trovai un buon lavoro in un’azienda locale. La vita scorreva tranquilla, finché non lo incontrai di nuovo.
Era una giornata di sole sul lungomare. Matteo, con una camicia leggera e una chitarra sulla spalla, camminava con gli amici, chiaramente in festa. I suoi occhi brillarono quando mi vide.
«Sofia, ma guarda chi si vede!», esclamò, abbracciandomi così forte che quasi mi mancò il respiro.
«Che festa è questa di mattina?», chiesi sorpresa.
«Viviamo semplicemente per il piacere di farlo», rispose spensierato.
Alzai le spalle e continuai a camminare, ma la sera seguente Matteo si presentò sotto casa mia con un mazzo di fiori. Non sapeva il numero del mio appartamento e aspettò che uscissi. La sua presenza mi colse di sorpresa.
«Mi hai spaventata!», risi prendendo i fiori.
«Sono così brutto?», scherzò, fingendo di essere offeso.
Andammo al supermercato, organizzammo una serata intima con vino e candele. Matteo mi guardava come se fossi il centro del suo mondo.
«Ho sempre pensato a te», ammise, alzando il bicchiere.
«Basta, non ricominciare», risposi, ma le sue parole mi riscaldarono il cuore.
«Non è destino che ci abbia riuniti?», insisté.
«Dai, non esageriamo», sorrisi, ma in fondo sapevo che aveva ragione.
Parlammo fino a notte fonda, e gli proposi di restare, non come innamorati, ma solo perché non tornasse a casa al buio. La mattina dopo andai al lavoro, lasciandogli un biglietto e le chiavi. Mentre camminavo, incontrai sua madre, Donatella. Non la vedevo dai tempi della scuola, ed eccola lì, per pura sfortuna.
«Ciao, Sofia», annuì. «Hai visto il mio vagabondo?»
«Sì», risposi, a disagio.
«Era ubriaco?», sbuffò.
«No, tutto bene», borbottai, affrettandomi ad andare via.
Un anno dopo, io e Matteo ci sposammo. Prima del matrimonio, sua madre era stata gentilissima: mi ringraziava per aver «rimesso suo figlio sulla retta via», l’aveva aiutato a trovare lavoro e lo aveva convinto a smettere di fare la vita da sballato. Credevo che saremmo diventati una vera famiglia. Ma non appena annunciammo il matrimonio, Donatella divenne la mia peggior nemica. Il suo atteggiamento cambiò come se le avessi rubato il figlio.
Anche Matteo non era più lo stesso. Il primo anno di matrimonio fu come una favola, poi si lasciò andare. Cominciò a bere, a essere sgarbato e, a volte, persino ad alzare le mani. E sua madre non faceva che peggiorare le cose.
«Se ti picchia, significa che ti ama, che ti lamenti?», mi lanciava con disprezzo.
Sopportai, soffocando il dolore. Anche mia madre mi esortava a non lasciarlo, e io tacevo, vergognandomi di confessare alle amiche che marito mi fossi scelta. La vita era diventata un incubo: temevo di tornare a casa, ma non avevo altro posto dove andare.
Un giorno, mentre camminavo, sentii una voce familiare:
«Sofia!», era Marco, un vecchio amico e vicino di casa di un tempo.
«Ciao», sorrisi debolmente, sentendo le lacrime salirmi agli occhi.
«Sembri distrutta», notò, avvicinandosi.
«Tutto bene», mentii.
«Andiamo, parliamo», propose, indicando la sua macchina.
Accettai—meglio che tornare a casa. Marco prese una bottiglia di vino, della frutta, e andammo al mare. Seduti sulla spiaggia, bevvi un sorso e poi scoppiai. Gli raccontai tutto: di Matteo, di sua madre, del mio dolore. Marco ascoltò in silenzio, poi mi tolse delicatamente una ciocca di capelli dal viso e mi abbracciò.
«Con te mi sento al sicuro», sussurrai.
«Voglio stare con te, Sofia», disse improvvisamente. «L’ho sempre voluto, ma tu eri con Matteo, poi ti sei sposata.»
Mi baciò, e non lo fermai. In quel momento capii che meritavo di più di una vita nella paura. Marco mi riaccompagnò a casa, e decidemmo di vederci il giorno dopo. Ma, uscendo dalla macchina, mi bloccai: sulla panchina c’era Donatella, con un sorriso velenoso.
«Beccata, carina!», mi indicò con il dito. «Ho sempre saputo che non eri adatta a mio figlio!»
A casa aveva già raccontato tutto a Matteo, mostrandogli le foto che aveva fatto. Lui mi fissò, con gli occhi pieni di rabbia e dolore.
«È vero?», chiese.
«Sì», risposi senza abbassare lo sguardo. «Vattene. Tu e tua madre. Questa è casa mia.»
Gli preparai le valigie e le misi fuori dalla porta. Se ne andarono senza dire una parola. Il giorno seguente chiesi il divorzio, sentendo un peso sollevarmi dalle spalle. Ora sono felice come mai prima. Accanto a me c’è Marco, un uomo che mi ama e mi rispetta. E mia suocera, che desiderava il nostro divorzio, mi ha inconsapevolmente regalato la libertà e una nuova vita.