Oggi mia suocera ha deciso di saperne più di noi.
Ludovica trasalì al suono stridente del telefono. Sullo schermo lampeggiava “Beatrice Mancini”. La suocera aveva già chiamato tre volte quella mattina. Con un respiro profondo, raccolse le forze e rispose.
“Sì, Beatrice, ti ascolto.”
“Ludovica, perché non rispondi?” Il tono era pieno di rimprovero. “Ho chiamato e richiamato!”
“Stavo preparando la pastina per Giulia, non avevo le mani libere,” mentì Ludovica, benché in realtà non volesse ripercorrere per l’ennesima volta il solito discorso su come cresce male la bambina.
“Ancora con quelle pastine! Te l’ho detto mille volte, i bimbi hanno bisogno di proteine! Mio Alessandro è cresciuto a carne e guarda che fisico! La tua Giulia è sempre così pallida, sembra che un soffio di vento la porti via.”
Ludovica chiuse gli occhi e contò fino a cinque. La pediatra aveva assicurato che Giulia era perfettamente sana. Era semplicemente mingherlina, come il ramo paterno.
“Beatrice, le diamo anche carne. A pranzo ci sono le polpette.”
“E meno male! Proprio per questo ti chiamo. Oggi passo da voi, vi porto del brodo di pollo, con le ossa, quello che piace ad Alessandro. E ho fatto anche delle cotolette, con la mia ricetta. Non come quelle tue palline…”
La smorfia di Ludovica fu impercettibile. “Palline” era stato pronunciato con tale sarcasmo che sembrava avesse dato veleno alla figlia.
“Non ti preoccupare, abbiamo tutto,” provò a ribattere.
“Quale preoccupazione? Una nonna che vuole vedere la nipotina! Non me lo impedirai, vero?”
Eccola lì: l’arte di porre domande che trasformavano ogni rifiuto in una crudeltà.
“Certo, vieni pure,” cedette Ludovica.
Appesa la cornetta, poggiò la fronte al vetro freddo della finestra. Fuori, fiocchi di neve danzavano sui rami spogli. Novembre era grigio e umido.
“Mamma, con chi parlavi?” Giulia sbucò dalla cameretta, stringendo il suo coniglio di peluche sbiadito.
“La nonna Beatrice viene oggi,” sorrise Ludovica, cercando di sembrare felice.
“E dirà di nuovo che non mangio abbastanza?” la bimba fece una smorfia.
Un nodo stretse il cuore di Ludovica. Persino una bambina di tre anni notava quelle critiche.
“La nonna ti vuole bene e vuole che tu cresca forte e sana.”
Giulia non sembrò convinta, ma annuì e tornò ai suoi giochi.
Ludovica si mise a pulire. Lei e Alessandro preferivano un disordine creativo, ma davanti alla suocera la casa doveva splendere. Altrimenti sarebbe arrivato il commento: “In questa porcilia verranno i microbi!”
In due ore pulì i pavimenti, spolverò e sfornò una crostata di mele, il suo unico piatto che Beatrice approvava.
Alessandro sarebbe tornato per pranzo. Lavoravano entrambi da casa, lui come sviluppatore, lei come grafica, ma oggi aveva un incontro in ufficio.
Il campanello suonò alle due in punto. Beatrice era precisa come un orologio svizzero.
“Eccomi, nuora mia!” Entrò la suocera, bassa e rotondetta, con capelli tinti di castano, carica di borse. “Dov’è la mia principessina?”
Giulia sbucò timidamente.
“Vieni qui, tesoro! La nonna ti ha portato dei regalini!”
La bimba si avvicinò e tese educatamente la manina per un bacio. Glielo aveva imparato Beatrice, convinta che le bambine dovessero educarsi come “vere signorine”.
“I baci sulla mano sono per le signore,” corresse la nonna. “Quando avrai sedici anni, allora potrai tendere la mano ai cavalieri. Per ora, abbraccia la nonna.”
Ludovica alzò gli occhi al cielo di nascosto. I consigli contrastanti di Beatrice non finivano mai.
“Beatrice, posso aiutarti con le borse?”
“Sì, non metterle in cucina. Ho preparato di tutto! Alessandro deve mangiare decentemente, non quelle schifezze moderne.”
In cucina, la suocera prese subito il controllo:
“Ludovica, prendi la pentola grande. No, non quella di plastica, una vera! E il pane? Lo tenete in frigo? Il pane non si mette in frigo, diventa subito raffermo!”
Ludovica sopportò pazientemente. Dopo sei anni di matrimonio, sapeva che per sua suocera esisteva sempre un solo modo di fare le cose.
“Giulia sembra un po’ pallida,” osservò Beatrice mentre posava sul tavolo i suoi barattoli di conserve. “La portate fuori? Le date le vitamine?”
“Sì, ogni giorno se il tempo lo permette. E il pediatra ci ha prescritto degli integratori.”
“Il pediatra!” sbuffò. “Cosa ne sanno i giovani dottori? Ai miei tempi…”
Eccolo lì, il solito ritornello.
“Ai miei tempi i bimbi stavano all’aria aperta tutto il giorno! E si rinforzavano! Alessandro lo portavo fuori con qualsiasi tempo. Ed è cresciuto forte.”
Ludovica tacque, anche se avrebbe potuto ricordarle che suo figlio aveva avuto bronchiti ogni inverno.
“Beatrice, ho fatto la crostata. Ti va un caffè?”
“Prima il pranzo. E dov’è Alessandro? Perché non è ancora tornato?”
Come per magia, si udì la serratura.
“Eccolo!” esclamò Beatrice.
Alessandro entrò, guardando con sorpresa le scarpe in ingresso.
“Mamma? Non mi avevi avvisato che saresti venuta!”
“Ma se ho chiamato Ludovica stamattina!” protestò la suocera.
Ludovica sorrise colpevolmente. Tra i mille impegani, aveva dimenticato di avvisare il marito.
“Ciao, mamma,” Alessandro la abbracciò. “Come stai?”
“Mah, che vuoi che ti dica… La pressione balla, le gambe si gonfiano. Ma non mi lamento! Ce la caviamo da soli, non siamo di peso a nessuno.”
Anche questa era una frase tipica: “Non mi lamento”, seguita da un elenco di malanni, e “non siamo di peso”, che suonava sempre come un rimprovero velato.
“Vai a cambiarti, riscaldo il pranzo. Ho fatto le tue cotolette preferite,” disse Beatrice.
Alessandro lanciò un’occhiata di scusa alla moglie. Sapeva quanto quei pranzi fossero stressanti.
A tavola, Beatrice iniziò a ricordare quanto fosse stato bravo Alessandro da piccolo.
“A quattro anni già leggeva! E le poesie che recitava… Giulia, tu le poesie le impari?”
La bimba muoveva la forchetta senza mangiare.
“Ne sa tante,” intervenne Ludovica. “Giulietta, recita quella dell’orso per la nonna.”
“Non voglio,” borbottò la piccola.
“Vedi, Alessandro?” esclamò Beatrice. “È così timida, non si esprime! Dovresti metterla all’asilo, così socializza.”
“Mamma, ne abbiamo già parlato,” tagliò corto lui. “Aspetteremo i quattro anni. Perché scombussolarla prima?”
“Scombussolarla?! Io ti ho messo all’asilo a due anni e sei cresciuto benissimo! E invece lei sembra quasi selvatica. Timida, non mangia…”
Giulia allontanò il piatto e fece il broncio.
“Posso andare a giocare?”
“No, finisci prima il pranzo,” ordinò Beatrice.”Ma quando Giulia rientrò in cucina con un sorriso e la sua bambola vestita da principessa, perfino Beatrice non poté fare a meno di sorridere, perché alla fine anche lei sapeva che l’amore di una famiglia può superare ogni divergenza.”