La tormenta di neve era tremenda. Le strade erano completamente bloccate – impossibile attraversarle a piedi o in macchina. La porta del condominio non si apriva: sepolta sotto tre metri di neve, e nemmeno scavare era un’opzione. Del resto, non eravamo al Nord, e gli edifici non erano pronti per simili capricci della natura. Insomma, un vero disastro, senza scherzi.
E quella notte, il padre di Giulia stava morendo.
Un ictus. Niente ambulanza, niente soccorsi. Solo lei, giovane neurologa, e quel poco di medicinali e strumenti che aveva in casa.
Suo padre era crollato in cucina mentre metteva la pentola sul fuoco. Giulia non aveva visto l’accaduto, ma riconoscere un ictus è roba da studente del primo anno. Per lei, diagnosticare un’apoplessia era stato facile, e capire che senza un ospedale suo padre non sarebbe arrivato al mattino, altrettanto.
Chiamò tutti, persino la polizia. La risposta fu sempre la stessa: “La sua richiesta è stata registrata. I nostri operatori arriveranno appena possibile.”
Nessuno sarebbe venuto in aiuto, era chiaro. Ma non si sarebbe perdonata se non avesse provato tutto il possibile. Trascinò suo padre sul letto con fatica, mentre lui borbottava, completamente paralizzato. Niente anticoagulanti. Aspirina, poi prednisolone per via endovenosa, contro l’edema cerebrale. La pressione? Bassa. Quindi niente bisoprololo.
Non restava che aspettare. Giulia agiva come una macchina, seguendo protocolli e manuali. Niente emozioni, solo vuoto dentro.
Poi, come se non bastasse, la luce andò via. L’appartamento diventò buio e claustrofobico. I mobili sembravano ingranditi, l’aria densa come sciroppo, i suoni nitidi e fragorosi. Suo padre respirava, affannosamente ma regolarmente. Nessun lamento – già qualcosa. Lei, invece, sembrava non respirare affatto.
“Presto il mattino,” sussurrò, più per sentire la propria voce che per altro. Per ricordarsi che era ancora viva.
Proprio in quel momento, bussarono alla porta con forza.
Giulia si spaventò e al tempo stesso si illuminò di speranza. I soccorsi! Chi altri avrebbe potuto bussare così? Si precipitò verso l’ingresso, urtando ogni spigolo sul percorso. Trovò la serratura, aprì. Una luce accecante la investì.
“Ciao,” disse una voce maschile dall’altra parte, fin troppo familiare.
Era solo il vicino. Un tipo insopportabile di nome Massimo, eterno adolescente con un’irritante sindrome di Peter Pan. Lo detestava. Quarant’anni ma mentalità da quindicenne sganciato dalle regole. Un fallito che poteva passare mesi senza tagliarsi i capelli, poi radersi a cresta e tingersi di verde fluorescente, menarsi con i vigili urbani o compiere mille altre follie. Lui poteva permettersi di non lavorare. Eppure, sopravviveva.
Per lei, che aveva passato l’adolescenza tra libri e scheletri, la sua filosofia di vita era un insulto. Gente così non meritava di vivere in una società normale.
Avrebbe voluto sbattergli la porta in faccia, ma Massimo mise il piede nello stipite, sfacciato come solo lui sapeva essere. Un’invasione di domicilio a un passo dal penale.
“Tutto bene?” chiese lui.
“Togli il piede,” rispose seccamente.
Lo temeva, e ogni volta che lo incontrava cercava di evitarlo come la peste.
“D’accordo,” ritirò il piede e abbassò la torcia. “Pensavo potessi aver bisogno di aiuto.”
“Non dal tuo.”
“Quindi sì, ne hai bisogno,” intuì Massimo. “Hai acqua? Ne hai abbastanza?”
“Santo cielo, ho l’acqua nel bollitore! E se non bastasse, c’è quella del rubinetto!” Si indignò e cercò nuovamente di chiudergli la porta in faccia.
Che sfacciatello! Ma questa volta Massimo non ostacolò la chiusura. Invece, lasciò una tanica da cinque litri sulla soglia, poi tornò nel suo appartamento. Che era appena oltre il muro. Un muro che, tra l’altro, non la proteggeva né dalle sue ubriacature urlate né dalle sue improbabili esibizioni con l’armonica a bocca.
“Che rompipalle,” borbottò Giulia.
Poi ci pensò su. E si diresse in cucina. Esatto: i rubinetti gracidavano vuoti. La tanica rimase lì, sul confine tra il suo appartamento e il mondo esterno.
Poco dopo, Massimo tornò con pile e una torcia. Lei, dottoressa, non ci aveva nemmeno pensato. Eppure, sarebbe dovuta essere lei a salvare gli altri, almeno nel suo palazzo.
“Vorrei mandarti a quel paese,” ammise Giulia quando Massimo le consegnò la torcia carica.
“Manda pure,” lui scrollò le spalle. “Ma dimmi: come sta tuo padre?”
“Ma tu ci hai bevuto insieme? Che te ne importa?”
“No, non ci ho bevuto. Come sta?” fu diretto.
“È un ictus…” le sfuggì. “Servirebbe un’ambulanza…”
Massimo girò sui tacchi dei suoi sandali logori e sparì oltre la sua porta scrostata. Giulia rimase sola. Con suo padre morente. Con una tanica d’acqua e una torcia.
“È un idiota, papà. Davvero. Uno di quei tossici di periferia che tu hai arrestato a decine…”
La torcia, comunque, era una benedizione. Riuscì a misurare la pressione a suo padre, trovare una flebo di glucosio e sistemare la flebo. Provò ad accendere il fornello – niente! Persino il gas si era spento!
Aveva voglia di piangere. Lei, neurologa qualificata, non riusciva a salvare l’unica persona che le importava davvero. E tutto perché aveva nevicato troppo? A cosa erano serviti anni di studio e tirocinio? Non si era mai sentita così inutile.
E poi, Massimo riapparve.
“Vedo che non la passi bene, Giulia. So riconoscere quando qualcuno è nei guai,” era vestito in modo ridicolo, come un esploratore polare su una foto in bianco e nero. E in mano aveva una borsa piena di roba assurda – maniche imbottite e calzini di lana spuntavano fuori.
“Non ci credo. Ma entra pure,” cedette Giulia.
“Rifiuto l’invito,” disse Massimo, varcando la soglia. “Possiamo portare tuo padre,” spiegò. “Tu sei il dottore, ti occupi di lui. Io so camminare nella neve, più o meno. Tuo padre è un combattente. In tre, ce la faremo.”
Aprì la borsa. Ne tirò fuori un sacco a pelo enorme…
“Mettiamoci dentro zio Enzo… Enrico…” Massimo arrossì come un ragazzino. “Tuo padre…” riuscì a dire. “Hai dei collari?”
“Sì. Glielo metto,” rispose secca, sorpresa di quanto le venisse naturale. Proprio come in ospedale, con un’emergenza tra le mani e troppo da fare.
“Allora prima il collare, poi il sacco,” ordinò Massimo.
Giulia non era abituata a ricevere ordini. Di solito, era lei a comandare. Ma ora non le servivano razionalità o buonsenso. Le servivano aiuto, speranza, qualcuno al suo fianco. E il peggior uomo del mondo glieli stava dando, tutti e tre.
“Dove pensi di arrivare?” chiese Giulia, sistemando il collare a suo padre.
“L’ospedale più vicino è a un chilometro e mezzo,” spiegE mentre Massimo l’aiutava a trasportare suo padre attraverso la neve, Giulia capì che a volte i peggiori vicini possono diventare gli angeli custodi più imprevedibili.