**Diario Personale: La Strada per la Felicità**
Stamattina tornavo a casa a piedi dal lavoro. Un po’ lontano, certo, ma la sera era tiepida, silenziosa, senza vento. In serate così, non mi dispiaceva affatto non avere un’auto. Camminavo, godendomi il calore e l’estate ormai vicina.
Per tutta la vita avevo vissuto con i miei genitori nel centro di Milano, abituato al caos e al rumore. Ma da poco mi ero trasferito in periferia, in un quartiere residenziale. Arrivavo a casa e quasi subito mi buttavo a letto, per alzarmi presto e tornare al lavoro nel cuore pulsante della città.
Di notte, dalla finestra della mia camera, la luna curiosa mi sbirciava dentro. Non c’erano alberi né altre case a ostacolare la vista, nemmeno le tende pesanti che ancora non avevo. Vivevo al dodicesimo piano di un nuovo edificio, con vista su un campo e una lontana striscia di bosco all’orizzonte. Le prime notti, mi svegliavo nel cuore della notte, guardavo la stanza illuminata dalla luce azzurrina della luna e per un attimo non capivo dove fossi. Poi mi ricordavo, mi calmavo e mi riaddormentavo.
***
Due anni prima, non sapevo nemomeno che esistessero ancora le case popolari. Non come quelle di una volta, con dieci famiglie a dividersi una cucina, ma comunque vivere con uno sconosciuto, condividendo bagno e cucina, non era affatto piacevole.
Ero cresciuto in una famiglia normale, in un bilocale nel centro di Milano, con soffitti alti, stanze spaziose e un lungo ingresso che sfociava in una piccola cucina. Mia madre lavorava come maestra d’asilo, mio padre era autista di autobus. Non navigavamo nell’oro, ma potevamo permetterci una vacanza al mare.
Tutto crollò in un giorno. Mio padre non aveva infranto nessuna regola: aspettò il verde al semaforo e ripartì, accelerando l’autobus. All’improvviso, una donna con una borsa a rotelle gli si parò davanti, scattando dal marciapiede. Mio padre frenò di colpo, ma come si fa a fermare un mezzo così pesante all’istante? La donna volò via come una palla, e morì prima di arrivare in ospedale.
Aveva fretta, si scoprì poi, per prendere il treno. Il genero le aveva promesso di accompagnarla in macchina in campagna, ma all’ultimo aveva cambiato programma. Loro due avevano litigato, e lei, furiosa, si era precipitata in stazione. Pensava di farcela a passare prima che l’autobus la investisse. Il treno non l’avrebbe aspettata.
Lo stesso genero, al processo, urlò che mio padre ubriaco aveva ucciso la sua cara suocera e chiese il massimo della pena. Sì, la sera prima c’era stata una festa per il pensionamento di un collega, avevano bevuto. Ma quella mattina la visita medica non aveva rilevato nulla di anomalo in mio padre. Lui non era un tipo da alcol. Eppure, nel fascicolo spuntarono risultati che lo davano oltre il limite consentito.
Per non rovinare gli altri autisti, mio padre disse di aver bevuto al compleanno di un’amica di mia madre. Salvò tutti, ma lui finì in galera. Mia madre cadeva in depressione, piangeva sempre. I soldi scarseggiavano. Lo stipendio di una maestra d’asilo non bastava. Io annunciai che dopo il liceo non avrei studiato, sarei andato a lavorare.
“Ah, vuoi farti prendere dall’esercito? Mio marito non mi basta, ci manca solo che ti succeda qualcosa!” singhiozzò mia madre.
Per tranquillizzarla, promisi di continuare a studiare. Poco prima del diploma, mio padre morì in prigione per un infarto. Io, come avevo promesso, mi iscrissi all’università. Due anni dopo, mia madre si risposò e si trasferì dal nuovo marito. Io rimasi solo nell’appartamento. Lei pagava l’affitto e mi dava i soldi per studiare. Poteva permetterselo. Il nuovo marito non era un semplice impiegato, ma un dirigente. Anche se, a dire il vero, mi uscì subito dalla testa di che cosa si occupasse.
I miei amici universitari scoprirono che avevo una casa libera e subito cominciarono a organizzare feste. Io, ospite generoso, lasciavo che restassero anche a dormire.
All’inizio mi piaceva quella vita, ma poi le compagnie rumorose mi stancarono. Spesso, svegliandomi, trovavo in casa ragazzi e ragazze che non avevo mai visto.
I vicini si lamentarono con mia madre. Lei arrivò una mattina presto per beccarmi in casa. Ad accoglierla uscì una ragazza nuda, che senza imbarazzo le passò accanto dirigendosi verso il bagno.
Naturalmente, mia madre fece una scenata, cacciò tutti e minacciò di smettere di darmi soldi se non avessi finito con quelle orge e quelle sbronze.
Per due settimane, nell’appartamento regnò il silenzio. Poi gli amici tornarono, per festeggiare un compleanno. Si comportarono bene, ma bevvero come spugne.
La mattina dopo, mi svegliai nel letto non da solo. Accanto a me dormiva una ragazza nuda, coperta solo fino alla vita. Aveva il viso girato verso il muro e i capelli rossi sparpagliati sul cuscino. Nell’intero gruppo, solo Martina Rossi aveva quei capelli.
Uscii piano dal letto per non svegliarla. Non ricordavo nulla, ma se fosse successo qualcosa tra noi, dubitavo che mi sarei rimesso le mutande dopo.
Feci il giro delle stanze: non c’era nessun altro. Feci la doccia, preparai il caffè. Martina si svegliò con l’odore, entrò in cucina con la mia maglietta lunga addosso e cominciò a fare moine, mormorando sciocchezze. Io mi scostai.
“Che c’è? Stanotte dicevi che mi amavi,” fece lei, offesa. “Dammi il caffè.” E allungò una mano verso la mia tazza.
“Non dire stupidaggini,” risposi, insicuro. “Non è successo niente tra noi. Non sono suicida, se lo scopre Riccardo mi spalma sul muro.”
“Ma ci siamo lasciati. Non lo sapevi? Pensi che sia una coincidenza se ieri mi sono ubriacata così? Lui si è messo con Laura del quinto anno, quel cretino.”
Mentre Martina piagnucolava sotto la doccia, buttarDopo quell’incontro casuale con Martina, la mia vita prese una svolta imprevista, ma oggi, mentre guardo i miei figli giocare nel giardino di casa nostra, so che ogni passo, anche il più incerto, mi ha portato qui, a questa felicità semplice e autentica.