La portinaia sussurra mentre pulisce la vetrina del porticato: «I bambini di Serena Bianchi sono strani».
«Silenziosi, quasi come dei topini. Solo gli occhi fissano», conferma la vigilante.
Sono entrata nel mio nuovo appartamento un mese fa e le scatole rimangono ancora negli angoli, ancora chiuse. Il lavoro mi assorbe tutto il tempo; quando mi siedo davanti al computer, il giorno svanisce e mi ritrovo a lavorare fino a notte fonda. Lunica cosa che riesco a sistemare è la cucina, perché cucinare è il mio modo di rilassarmi dopo una lunga giornata.
Conosco a malapena i vicini, mi limito a salutare qua e là sul pianerottolo. Quando la porta suona, non riconosco subito la donna dagli occhi nervosi.
«Mi scusi, Nadia Sono Serena, la sua vicina. Ho un problema»
Parla in modo confuso, guardandosi continuamente alle spalle dove i due piccoli stanno come due passeri immobili. Il ragazzo è smilzo, con occhi attenti, la bambina, un po più piccola, ha le trecce così strette da sembrare pronte a strapparsi.
«Devo partire subito, solo per un paio dore. Potrebbe»
«fare da babysitter?», finisco io la frase. Lidea non mi entusiasma; adoro la mia solitudine, ma rifiutare sarebbe sgradevole.
«Sì, subito, e tornerò subito dopo», risponde. I bambini scivolano dentro lappartamento senza far rumore, quasi invisibili. Serena sussurra qualcosa allorecchio dei piccoli e sparisce.
«Allora, ragazzi, come vi chiamate?», cerco di sorridere.
«Alessio», dice il bambino a bassa voce.
«Ginevra», risponde la sorellina, riecheggiando.
«Volete qualcosa da bere?», chiedo mentre mi avvio verso la cucina.
Alessio si scambia uno sguardo con sua sorella e mormora:
«Posso?».
Il suo tono mi blocca: la domanda suona come se chiedesse di infrangere un divieto.
«Certo, ho succo, acqua, tè».
Mentre porto i bicchieri, vedo Ginevra scrutare di soppiatto il vaso di biscotti. Quando mi giro, la guarda via.
«Prendete i biscotti, li ho appena sfornati», avvicino il vaso.
«Davvero posso?», ripete in un sussurro.
Per stemperare latmosfera, comincio a parlare della mia collezione di libri di cucina, tirando fuori quello più bello con foto di torte. I bambini si avvicinano piano, ma rimangono tesi per ogni suono forte, dal cigolio della finestra al clacson di unauto fuori.
Serena rientra dopo quattro ore, irrompendomi come un tornado.
«Alessio! Ginevra! Tornate subito a casa!»
I bambini scattano, ma Ginevra urta il vaso con il braccio; il vaso ribalta e lei si blocca, terrorizzata.
«Va tutto bene, non è grave», la rassicuro, notando che si strofina il polso e si gratta la maglietta. Sul suo viso pallido spunta un livido, come una traccia di una stretta violenta.
«Grazie», sbatte Serena la porta e spinge i figli fuori nellandrone.
Resto lì, a guardare la porta chiudersi. Qualcosa non quadra affatto.
***
A volte un pensiero ossessivo non ti lascia in pace; così mi perseguitano gli occhi di quei bambini, spaventati, in allarme, come animali braccati. Dopo una settimana noto un pattern: le finestre di Serena sono quasi sempre tapparelle spesse, anche nei giorni di sole. Non sento mai i bambini giocare o ridere, solo occasionali urla della madre e porte che sbattono.
«È severa, ma educa bene i figli», commenta la signora del terzo piano quando le chiedo. «Non come i giovani doggi, che credono di potersi permettere tutto».
Giovedì incontro Alessio al supermercato, davanti al banco dei cereali, mentre conta i centesimi tra le mani.
«Ciao, Alessio!».
Il ragazzo sobbalza e le monete rotolano sul pavimento. Li raccogliamo insieme, osservando le sue dita tremare.
«Non dirlo a mamma, per favore», sussurra, stringendo una confezione di grano saraceno economico.
«Perché?», chiedo, ma lui è già sparito, quasi sbattendo contro altri clienti.
Quella sera Serena suona di nuovo.
«Nadia, mi aiuti. Devo stare fuori tutto il giorno, pago quello che vuole».
Rifiuto il denaro. Qualcosa mi dice di osservare ancora più a lungo questi bambini.
Il giorno passa lentamente; i bambini cominciano a sciogliersi. Accendo un vecchio cartone di Muzzy, e Ginevra ride piano quando il gatto Matroskin discute con il cane Sharik. Poi iniziamo a fare i biscotti.
«A casa di mamma non si sente mai così», riflette Alessio mentre taglia le forme di pasta.
«Che odore ha a casa di mamma?», chiede.
«Di sigarette e altro», si interrompe quando Ginevra gli tira la manica.
Un coperchio cade in cucina, e i due alzano le mani al viso in un gesto di protezione; dentro di me si spezza qualcosa.
«Mamma ci sgrida se facciamo rumore», dice Ginevra, abbassando le braccia. «E se mangiamo al momento sbagliato».
«Ginevra!», la stappa suo fratello.
Faccio finta di essere immersa nella decorazione dei biscotti, ma con lo sguardo intravedo una striscia rossa sul collo della bambina, nascosta sotto il colletto. Ginevra incrocia il mio sguardo e si aggiusta rapidamente il vestito.
«Dobbiamo comportarci bene per non far arrabbiare mamma», dice Alessio, mentre stende la glassa. «Così tutto sarà normale».
«Normale», penso a quei bambini intelligenti, dolci, ma braccati, e capisco che nulla nella loro vita è normale. Nulla.
La sera, mentre restituisco i bambini a Serena, sento lodore di alcol. Non mi chiede nemmeno comè andata la giornata; afferra i figli per mano e li porta via.
Resto ancora a guardare le loro finestre scure. Devo fare qualcosa. Ma cosa? Devo parlare con le autorità.
***
«E voi non farete nulla?», chiedo al commissario dopo una lunga chiacchierata.
«Cosa volevate? Non ci sono prove. La madre è in regola, i documenti sono a posto. Forse vi siete sbagliati».
Non dormo da diverse notti. Dopo la segnalazione, Serena mi guarda con una sfida minacciosa. I bambini non alzano più gli occhi quando mi incrocia, come se avessero tradito. Come ha saputo? Forse lha chiamata.
Inizio a bussare alle porte dei vicini, ma trovo solo indifferenza.
«Che legame hai con questa gente?», sbotta la signora del terzo piano. «Una sola madre, non beve quasi».
Al negozio, la commessa Marina, una donna robusta dagli occhi gentili, mi confida:
«Li vedo spesso. Il ragazzo conta i soldi e prende sempre il più economico. Poi la madre… compra del whisky, non è poco costoso».
«Da quanto tempo vivono con lei?», chiedo.
«Da due anni. Non le assomigliano per niente, nemmeno un po».
Quella sera, seduta al portatile, sento urla, prima soffocate, poi più forti. Il suono di vetri che si infrangono, pianti di bambini. Chiamo subito la polizia.
Serena apre la porta, sorridendo: «Scusate, abbiamo alzato troppo il volume».
Gli agenti si scambiano sguardi, uno entra.
«Dove sono i bambini?».
«Dormono già, è tardi».
«Controlliamo».
I bambini sono a letto, troppo immobili per dormire. Ginevra gira leggermente la testa e vedo una fresca abrasione sulla guancia.
«È caduta», dice Serena frettolosamente. «È così goffa».
La polizia se ne va, e io rimango con la mia impotenza e rabbia.
***
Due giorni dopo, Alessio bussa alla porta, pallido, le labbra morsicate.
«Ecco», mi porge un foglio stropicciato. «È di Ginevra».
Il biglietto è breve: «Aiutateci, per favore».
«Non è nostra madre», scoppia Alessio, coprendosi la bocca, guardando inquieto il pianerottolo. «Non ricordiamo come siamo finiti qui. Ricordiamo solo unaltra casa».
Sul retro, con una scrittura tremante, legge: «Ci farà una punizione se lo diremo a qualcuno».
Quella notte non chiudo gli occhi. Al mattino inizio a muovermi.
«Capite che vi immischiate in affari che non vi riguardano?», sibilò Serena, spingendomi contro il muro del corridoio, il suo alito puzzolente di alcol. «Pensate che sia una brava donna? So chi ha chiamato la polizia, ho contattato i servizi sociali».
La guardo dritta negli occhi.
«Sapete cosa penso? Che questi bambini non sono vostri».
Serena indietreggia, spaventata.
«Menzogne! Ho i documenti!».
«Falsi, suppongo».
La sera telefono lassistenza, le organizzazioni per i diritti dei minori, perfino un investigatore privato, e inoltro denunce ovunque.
«Sei una porca», sbotta Serena. «Te ne pentirai».
Il giorno dopo, il servizio sociale mi chiama.
«Signora Nadia? Abbiamo verificato. Cinque anni fa, a Napoli, sono scomparsi due fratelli, un maschio e una femmina, età corrispondente. Anche laspetto è identico».
Le mie mani tremano.
«Cosa facciamo adesso?».
«Coinvolgiamo la polizia, preparatevi a testimoniare».
Serena sente qualcosa, di notte sento i suoi passi, le porte degli armadi che sbattono, le chiavi che tintinnano. Chiamo subito il vigile.
Unora dopo ledificio è pieno di agenti, assistenti sociali, investigatori. Serena corre da una stanza allaltra, sbattendo porte e finestre.
«Non avete diritto! Sono i miei figli!».
«Allora spiegate perché assomigliano ai bambini scomparsi cinque anni fa, Kostya e Vera Samoilova?», domanda linvestigatore con calma.
Alessio, ora Kostya, stringe la mano a sua sorella. Stanno accanto, protetti luno dallaltro.
Il ragazzo inizia a parlare, ma Serena lo interrompe, urlando, e si lancia sui bambini. Gli agenti lo fermano, gli mettono le manette.
«Serena Bianchi, è in arresto per sequestrazione di minori».
Osservo il suo allontanamento e sento un vuoto strano dentro. Tutte queste settimane di tensione, paura, incertezza, svanite in un attimo.
«Nadia!», grida Vera, la Ginevra di prima, avvicinandosi e abbracciandomi. «Ci hai salvati!».
Piango, finalmente.
***
Due giorni dopo, i bambini sono ospitati in un centro di accoglienza per minori. Li faccio visita ogni giorno; imparano di nuovo a sorridere, a parlare a voce alta. Quando i loro veri genitori arrivano, non riesco a trattenere le lacrime. Una donna sottile dai capelli completamente bianchi, Anna Mihailova, guarda i figli e piange. Il marito, alto, dagli occhi gentili, li abbraccia forte.
«Non abbiamo mai smesso di sperare. Mai».
La storia di Serena si rivela più spaventosa di quanto immaginassi: un disturbo psicologico, la perdita dei propri figli in un incidente, poi il rapimento di altri, la fuga in unaltra città, minacce fino alla morte, e loblio forzato del passato.
«Nadia», dice Anna stringendomi le mani, «avete salvato non solo i bambini, ma tutta la nostra famiglia. La nostra vita».
I bambini ricominciano a ricordare il loro passato. Kostya era un campione di scacchi, vincitore di tornei cittadini; Vera amava disegnare.
«Guarda, è il tuo», mi porge Vera un disegno, «sei come un angelo custode».
Ricordo quella sera in cui ho percepito qualcosa di strano. Quanto sarebbe stato facile voltare pagina, far finta di nulla. Quante persone hanno fatto lo stesso?
Sei mesi dopo ricevo una lettera. I bambini scrivono che vanno in una nuova scuola, il papà porta Kostya agli scacchi, Vera si è iscritta a un corso di pittura. Non temono più i rumori forti o il buio, credono di nuovo nella gente. Dentro la busta cè un disegno luminoso: una famiglia al picnic, tutti sorridenti, con la scritta «Grazie per averci insegnato a non avere paura di essere felici».
Lo appendo al muro. Ogni volta che lo guardo penso: a volte il grande bene nasce da un piccolo gesto di attenzione. Basta non passare oltre. Basta notare. Basta aiutare.
Molto tempo dopo, torno a trovarli. Vera si dondola sullaltalena, ride forte, come dovrebbero fare i bambini. Kostya racconta animatamente qualcosa al padre, gesticolando. Anna, ora senza capelli bianchi, sorride guardandoli.
«Nadia!», grida Vera scendendo dallaltalena, «la prossima settimana ci trasferiamo più vicino! Così ci vedremo più spesso!».
E capisco che la vita si sta davvero raddrizzando. Per loro, per me, per tutti noi. Perché a volte basta credere: anche nella storia più buia può esserci una luce. Basta avere il coraggio di fare il primo passo.






