La Vita sotto il Peso del Tiranno

Vita sotto il giogo di un tiranno

Quando la vita ci ha messo con le spalle al muro, io e mio marito siamo stati costretti a trasferirci da suo padre in un paesino vicino a Firenze. Pensavamo fosse una soluzione temporanea, ma dopo pochi mesi mi resi conto che non sarei riuscita a resistere nemmeno un anno sotto lo stesso tetto con quell’uomo. Mi sentivo una schiava nella casa di un padrone crudele, e ora, anche se dovessimo patire la fame, non tornerò mai da mio suocero. Il suo atteggiamento ha distrutto ogni speranza di convivenza pacifica.

I genitori di mio marito erano divorziati da anni. Lui era stato cresciuto dal padre, Renato De Luca, mentre la madre aveva rifatto la sua vita altrove e quasi non si faceva mai vedere. Forse era per questo che il suocero disprezzava le donne. Il giorno del nostro primo incontro mi era sembrato solo un vecchio burbero, scorbutico ma niente di più. Rispettandolo per aver cresciuto da solo mio marito, cercai di andare d’accordo con lui. Invano.

Io e mio marito non avevamo una casa nostra. Affittavamo una stanza a Firenze, risparmiavamo per comprare un appartamento, ma poi rimasi incinta e tutti i piani crollarono. I soldi bastavano a malapena, e il parto era ormai vicino. A malincuore, chiedemmo a Renato De Luca di ospitarci. Ma dopo due giorni rimpiangevo già quella decisione, come se avessi intuito l’inferno che mi aspettava.

Non avevo mai fatto così tante faccende domestiche in vita mia. Pulizie, cucina, stirare—tutto ricadeva su di me, come se fossi una serva senza volontà invece di una donna incinta. All’ottavo mese facevo fatica a muovermi, la schiena dolorante, il peso della pancia che mi trascinava giù, ma non mi era permesso riposare. Continuavo a lavorare per mettere da parte qualcosa prima del congedo di maternità, e a casa mi aspettavano sempre nuove incombenze.

“Cosa credi, di essere una principessa?” ringhiaa Renato se osavo sedermi sul divano o stendermi quando non ce la facevo più. “La gravidanza non è una malattia! Nessuno verrà a pulire al posto tuo!”

E così, stringendo i denti, riprendevo lo strofinaccio, spolveravo, lavavo i vetri, pulivo angoli che non vedevano un panno da anni. Mio suocero non conosceva pietà. Cercava il pelo nell’uovo, inventando nuovi lavori finché non crollavo dalla stanchezza. E lo faceva solo quando mio marito non c’era. Cercavo di restare fuori il più possibile per evitare la sua rabbia, ma era inutile.

“Torno dal lavoro e tu dove sei andata a zonzo?” urlava se la cena non era pronta al suo ritorno. “Il pavimento è sporco, si sente scricchiolare sotto i piedi, e lei se ne va in giro!”

Le sue parole mi trafiggevano l’anima. Mi umiliava ogni volta che poteva, e io tacevo, non volendo lamentarmi con mio marito. Andrea già lavorava due turni per mantenerci. Cercavo di gestire il padre da sola, sperando che si abituasse a me. Ma le sue critiche crescevano come una valanga. La minestra era insipida, il piatto non ben lavato, il letto rifatto male. A volte le sue lamentele erano così assurde che trattenevo a stento un amaro sorriso. Dovevo lavare i pavimenti due volte al giorno, stirare non solo i nostri vestiti ma anche le sue camicie, come se fossi la sua serva.

“Perché dovrei toccare io il ferro da stiro quando c’è una donna in casa?” urlava. “Se mio figlio ha sposato un’impastata, che chieda il divorzio! Se ne sta sempre sdraiata, pigrona!”

Vivendo con Renato De Luca, capii perché sua moglie era scappata appena nato il figlio. Sopportarlo era oltre ogni limite umano. Iniziai ad ammirare quella donna, che aveva resistito almeno qualche anno. Era un’eroina. Ma un giorno arrivai al limite.

Ero in cucina, a strofinare una pentola, quando entrò e ricominciò a dirmi che “non facevo niente come si deve”. La sua voce piena di disprezzo fu l’ultima goccia. Sbattei la pentola nel lavandino, mi asciugai le mani e, senza dire una parola, andai a fare le valigie. Meglio vivere di stenti che lasciare che quel tiranno mi distruggesse i nervi e la salute. Pensavo non solo a me, ma al bambino che non meritava scandali e umiliazioni.

“Vattene pure al diavolo!” mi urlò dietro, accompagnandomi con insulti coloriti.

In quel momento tornò Andrea. Vedendomi in quello stato, trattenne a stento la rabbia verso suo padre. Lo portai via, e il giorno dopo affittammo una stanzetta minuscola. Da allora, mio marito non parla più con suo padre. Renato gli mandò messaggi pieni di veleno, accusandolo di aver “scambiato il sangue del suo sangue per una donna qualunque”. Dopo quello, Andrea tagliò ogni legame con lui.

Ancora oggi non capisco come un uomo del genere abbia potuto crescere un figlio gentile e premuroso. Forse il suocero si era inasprito per la solitudine o la gelosia, ma non ho né la forza né la voglia di approfondire. Non abbiamo più contatti, e spero che resti così per sempre.**La vita ci insegna che nessuna difficoltà giustifica la crudeltà, e che a volte tagliare i legami tossici è l’unico modo per salvarsi.**

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

5 × 2 =

La Vita sotto il Peso del Tiranno