Laboratorio Creativo al Posto dell’Ufficio

12 aprile, Milano
Oggi la riunione di budget è stata un soffocante soffio di aria stagnante. Ho tolto le cuffie, le ho tenute un attimo fra le dita e ho sentito il leggero calore del cavo attorno alla mano. Il locale era già afoso, e sullo schermo lampeggiava una tabella a colonne multicolori; qualcuno dallufficio di Roma spiegava con voce monotona perché nel terzo trimestre dovevamo riverniciare i conti, mentre la curva dei risultati scendeva lentamente.

Sapevo che mi avrebbero chiesto unopinione. Avevo pronto il discorso su ottimizzazione dei processi e ridistribuzione del carico di lavoro, come fosse già provato in anticipo. Ma il petto era vuoto. Processi, iniziative, collaborazione orizzontale giravano da sole, lontane dal mio ruolo reale.

Marco, sei con noi? la voce dal monitor è apparsa più brusca del necessario.

Ho sobbalzato, ho rimesso le cuffie.

Sì, sì, sento. Dal mio lato ho cliccato il mouse, aperto gli appunti. Vedo un potenziale nella ridistribuzione dei compiti tra le squadre regionali, ma è fondamentale considerare il fattore umano, altrimenti la motivazione si spegne.

Alcune teste nei piccoli riquadri hanno annuito. Uno ha annotato la frase nel verbale, un altro si è distratto sulla posta. Mentre parlavo, mi è balenata lironia di quel fattore umano. Quando ero stata lultima volta davvero una persona, e non solo responsabile del servizio clienti?

Dopo la call tutti sono volati verso le proprie scrivanie. Nel corridoio si respirava il profumo di caffè e pasticcini freschi dalle macchine automatiche. Sono rimasto davanti alla finestra. Sotto il grigio cielo di marzo, il traffico scendeva a fiumi di auto; la gente stringeva le sciarpe al collo, frettolosa verso la metropolitana. Il vetro mi ha restituito la mia immagine: giacca ben stirata, capelli raccolti, trucco leggero. Quarantatre, buona posizione, stipendio dignitoso, mutuo, figlio adolescente. Tutto al suo posto.

Eppure dentro mi sembrava di indossare non solo la giacca, ma la pelle di un altro.

Il cellulare ha vibrato. Un messaggio da una vecchia compagna di classe: Ti trovi mai a casa? Sempre al lavoro. Facciamo qualcosa questo weekend? Ho risposto con un Più tardi, progetto in scadenza e poi ho cancellato. Poi ho scritto Ci sentiamo sabato.

Ritornato alla scrivania, sul tavolo accanto al laptop cera una piccola scatola di plastica con aghi. Una settimana prima, durante una chiamata notturna con lufficio di Berlino, avevo strappato il fodero della giacca. Mi sono ricordato del kit da cucito rimasto nel cassetto: era stato comprato per ogni evenienza.

Così, in una stanza semibuia, luce del monitor che mi accecava, ho tolto la giacca e ho iniziato a ricucire il fodero con punti larghi ma regolari. Le mani hanno ritrovato la sensazione di tenere un ago, di far scorrere il filo senza impigliallo. Da bambina cucivo abiti per le bambole con le vecchie gonne della mamma; alluniversità rigeneravo jeans e cappotti per distinguermi tra le giacche anonime.

Il percorso poi mi ha portato da una banca allattuale holding, tra corsi serali, report e progetti. La macchina da cucire acquistata come premio si era rimpolverata in camera, incastonata sotto una copertina. Quando avremo tempo, mi dicevo. Ma il tempo non accadeva.

Marco Bianchi, possiamo? ha sbattuto alla porta lassistente. Da Roma chiedono urgentemente il report aggregato sui reclami del trimestre, preferibilmente entro fine giornata.

Inviami il template, ho risposto, tornato a fissare lo schermo.

Con il pomeriggio che mi martellava la testa, ho chiuso il laptop, lho infilato nella borsa, spento le luci. Nellascensore mi sono guardato allo specchio e ho visto la stanchezza nuda, il broncio sotto il correttore.

A casa, in cucina, mio figlio Matteo stava divorando spaghetti mentre guardava il tablet. Sul fornello il sugo in scatola si raffreddava, appena scaldato dopo aver tolto la giacca.

Come va la scuola? ho chiesto.

Bene, ha risposto senza distogliere lo sguardo dallo schermo.

Ho messo lacqua a bollire, ho preso del parmigiano dal frigo. La borsa con il laptop è caduta pesante sul sgabello. Nella testa giravano ancora numeri, piani, presentazioni. In un attimo mi è sembrato che la mia vita fosse una lista infinita di task su un planner aziendale.

Quella notte il sonno è scappato. Nelloscurità ho sentito il leggero russare di Matteo nella stanza accanto, il rumore sparso di qualche auto fuori. Ho rivissuto il ricordo delle dita che stringevano lago, la linea dritta del punto sul fodero. Sognavo il laboratorio di sartoria che avevo una volta desiderato aprire, ma poi il matrimonio, il figlio, le necessità di stabilità avevano spostato il sogno in un angolo dei ricordi, come una valigia vecchia in soffitta.

Al mattino, nella posta, mi aspettava una comunicazione dal dipartimento HR: Riorganizzazione della struttura. Testi asciutti di ristrutturazione, consolidamento delle aree e ottimizzazione del livello manageriale. Allegato: nuovo organigramma. Il mio reparto sarebbe stato spostato in unaltra business unit, con al di sopra una nuova carica Direttore dellesperienza cliente. Il nome accanto al mio era sconosciuto.

Unora più tardi il CEO mi ha convocato. Il suo ufficio profumava di caffè pregiato e profumo di lusso. Con un sorriso teso ha iniziato:

Marco, i tempi sono difficili, dobbiamo essere più agili, rispondere più velocemente al mercato. Per questo abbiamo deciso di unire le divisioni. Il tuo knowhow è prezioso, ma ha fatto una pausa. Ti proponiamo il ruolo di advisor del nuovo direttore. Formalmente è una retrocessione, ma con stipendio invariato per sei mesi, poi rivedremo.

Ho annuito, sentendo un peso scendere dentro di me. Advisor: una figura pronta a essere rimossa in un batter docchio.

Posso pensarci un giorno? ho chiesto.

Il CEO ha acconsentito, poi ho lasciato lufficio, attraversando il corridoio tappezzato di poster motivazionali sul leadership e successo. Nella toilette, appoggiata al piatto freddo, ho mormorato: Se non ora, quando?.

Di sera, invece di prendere lautobus, ho deciso di fermarmi alla fermata un po prima. Volevo farle respirare al mio capo. Ho camminato lungo Via Torino, tra farmacie, saloni di bellezza, negozietti. In un seminterrato illuminato da una luce gialla, uninsegna diceva Riparazioni e sartoria. Sotto, il cartello mostrava gli orari e un numero di telefono.

Il passo si è fatto più lento. Vedevo una stanza stretta piena di tavoli. Una donna di circa cinquanta anni, con occhiali e un cappotto, stava guidando la macchina da cucire. Sui manichini pendevano giacche, vestiti, pantaloni da uomo. Una pila di jeans era sullo sgabello vicino alla porta.

Un uomo con una borsa ha spinto la porta: Entri o no?. Ho lasciato che entra lui, la porta si è aperta, e lodore di tessuto, ferro caldo e sapone mi ha riportato allinfanzia, quando mia madre stirava a mano.

Mi sono fermato, sorridendo e allo stesso tempo provando timore. Quella piccola sartoria rappresentava una vita diversa, spaventosa da attraversare.

Rientrato a casa, ho camminato da stanza a stanza. Matteo, ancora con le cuffie, stava sul divano. Sul desktop della posta cera una bozza di lettera al reparto HR intitolata Domanda di dimissioni. Lho aperta, ho guardato il corpo vuoto, e lho chiusa.

Quella notte i numeri mutuo, bollette, cibo, corso di basket per Matteo continuavano a girare nella mia testa. Il mio stipendio copriva tutto con un margine, ma la sartoria sarebbe stata un guadagno minimo, senza assicurazione.

Il giorno successivo, sul tragitto per lavoro, ho fatto comunque un salto nel seminterrato. Il campanello ha tintinnato. Dentro cera caldo. Su un tavolo cerano rocchetti di filo colorati, spilli, metro. La donna, Zina, mi ha guardato.

Buongiorno, ho detto, sentendo la bocca secca. Vorrei chiedere: state cercando aiuto?

Zina ha valutato la mia giacca, la borsa ordinata, le scarpe con tacco basso.

Sai cucire? ha chiesto.

Un po, da bambina cucivo vestiti per le bambole, poi rivestivo jeans e cappotti alluniversità. Le mani ricordano.

Tutti dicono così, ha sorriso. Io sono Zina. Ho una sola collaboratrice, ma a volte è pesante stare tutto il giorno in piedi. Il lavoro cè, ma non è un ufficio, capisci? Polvere, fili, clienti vari, e soldi non è una grande azienda.

Ho annuito.

Posso provare per qualche giorno? Sono ancora impiegato, ma potrei liberarmi presto.

Zina mi ha invitato a tornare sabato. Ho lasciato il seminterrato con le ginocchia che tremavano, tenendo il biglietto con il numero. Dentro di me due voci combattevano: Sei pazza, hai un figlio, un mutuo, un seminterrato pieno di fili e una più silenziosa, che ricordava la gioia di far scorrere lago tra il tessuto.

Il pomeriggio in ufficio è stato un turbinio di email, riunioni e lultima mail di dimissioni stampata sul tavolo. Non sono riuscito a consegnarla prima di cena.

Sabato, cielo grigio. Matteo è uscito con gli amici, promettendo di tornare per cena. Ho scelto jeans e una maglietta semplice, la giacca è rimasta sullappendiabiti come un ricordo. La sartoria era animata. Una giovane cliente con una borsa ingombrante chiedeva di accorpare una zip.

Zina mi ha fatto segno: Questa è la nostra stagista. Ha sistemato la cliente al tavolo. Ho preso la vecchia macchina da cucire, una pila di pantaloni e ho mostrato come segnare la lunghezza con gli spilli.

I primi punti erano difficili: il pedale sembrava strano, il filo si aggrovigliava, la schiena piangeva. Dopo mezzora ho trovato il ritmo. Il tessuto frusciava dolcemente sotto le dita, lago entrava e usciva con precisione.

A pranzo Zina mi ha offerto un tè in una tazza di terracotta.

Come va? ha chiesto.

Stanco, ma è bello vedere il risultato.

Questo è lessenziale, ha risposto. Non ingannarti: è un lavoro duro, spalle, occhi, gambe, pochi soldi. Ma se ti piace, tieni duro.

Mi ha dato qualche euro come compenso per lapprendistato. Era solo una decima del mio salario mensile, ma guardandoli mi è tornata alla mente la spesa quotidiana per un caffè al bar o un taxi.

Il lunedì successivo ho firmato la lettera di dimissioni e lho consegnata al reparto risorse umane. Sei sicura? mi ha chiesto la responsabile, occhiali sul naso.

Sono sicura, ho risposto, sorpreso dalla calma nella voce.

Le voci si sono diffuse in ufficio. I colleghi mi hanno chiesto dove andassi.

Vado in una piccola sartoria, ho detto a una collega.

Ha riso, pensando fosse uno scherzo, poi ha capito e si è confusa.

Ma perché? I soldi ha balbettato.

Lo so, ho replicato.

Quella sera ho raccontato a Matteo.

Ti dimetti? ha tolto le cuffie. E il mutuo?

Non smetterò di lavorare, solo cambierò posto. I soldi saranno meno, ma arriveremo a fine mese, taglieremo le consegne e i fast food. Tornerò più presto a casa, potremo cucinare insieme.

Matteo ha sbuffato: E se non funziona?

Ho riflettuto un attimo.

Allora cercherò un altro lavoro. Ma voglio provare.

Ha scrollato le spalle, rimettendo le cuffie, ma ha aggiunto a bassa voce: Se urli meno la sera per il lavoro, è già un plus.

La fase di preavviso è durata settimane: passaggio di consegne, istruzioni, risposte a domande. I colleghi hanno portato fiori, biglietti, auguri. Alcuni osservavano curioso, come se un uomo avesse improvvisamente deciso di vivere con regole diverse.

Lultimo giorno, uscendo dallufficio, ho guardato la vetrata: dentro luce, aria condizionata, infinite riunioni. Cerano stabilità, assicurazione, premi e la stanchezza che ormai era parte di me.

Due giorni dopo sono tornato in sartoria, ormai non più come apprendista ma come collaboratore. Zina mi ha dato il grembiule, mi ha indicato forbici, fili, nastri.

Non temere i clienti, ha detto. Alcuni brontolano, altri ringraziano. Limportante è non prendersi tutto a cuore.

Le prime settimane sono state dure. Mal di schiena, spalle, dita piene di spilli. Ho scambiato numeri di ordine, sbagliato lunghezze, e Zina mi ha rimproverato: Sei una donna intelligente, lavoravi in una holding. Qui sono le cose semplici: misura, cuci, non distrarti.

Un giorno è entrata una signora anziana con un cappotto costoso.

Cosa avete fatto al mio completo? ha gridato, gettando la borsa sul tavolo. Volevo accorciare le maniche di due centimetri, ma le avete tagliate più corte.

Ho riconosciuto lordine. Era stato il mio errore di lettura.

Alla fine, ho capito che la vera ricchezza non è il salario, ma la soddisfazione di vedere un capo tornare a casa con il sorriso di chi ha ritrovato se stesso.

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