L’Amore Perduto

**Diario di Giulia**

Fin da piccola, ho odiato il mio nome, Giulia. Mi sembrava antico, da nonna. Quando sono cresciuta, la mamma mi ha raccontato che papà, da giovane, aveva avuto una cotta per una bellissima ragazza di nome Giulia. Lui era pazzo di lei, ma lei lo aveva rifiutato e sposato un altro.

“Poi ha incontrato me. Quando sei nata, ti ha dato il suo nome. Non è mai riuscito a dimenticarla,” diceva la mamma con calma.

“E tu non sei gelosa?”

“No. Lui ama te e me. Ma il primo amore rimane sempre nel cuore. Un giorno ne avrai uno anche tu,” mi rispose, accarezzandomi i capelli.

“E anche quella Giulia era brutta come me?” sbuffavo io.

“Ma che sciocchezze dici! Ricordi la favola del brutto anatroccolo? E poi, se proprio non ti piace il nome, potrai cambiarlo quando sarai grande. Come ti piacerebbe chiamarti?”

Stavo davanti allo specchio, provando nomi come fossero vestiti nuovi. Nessuno mi sembrava adatto. Sospirai, ammettendo che un altro nome non mi avrebbe resa più bella. E poi, ormai ci ero abituata.

Ma ero sicura che nessuno mi avrebbe mai amata come papà aveva amato quella Giulia. Capelli spenti, occhi piccoli, mento appuntito. Insomma, brutta.

Papà mi voleva bene quasi quanto amava il vino. Tornando dal lavoro, spesso si fermava all’osteria, e dopo qualche bicchiere diventava più affettuoso. Mi portava sempre qualcosa: una cioccolata, un dolce, un giocattolo. Se non aveva tempo, mi dava qualche euro. Io li mettevo da parte e compravo quello che volevo.

Quando finii le superiori, papà morì. Stava tornando a casa, dei bambini stavano giocando vicino al fiume. La palla cadde in acqua e lui entrò per recuperarla. Era ubriaco, e affogò.

Mamma lo maledisse per averci lasciate sole. “Adesso come faremo? Tu devi studiare, ma con cosa? Che futuro avrai in questo paesino?”

Io lo piangevo disperata. Non volevo andare via, ma mamma mi obbligò.

“Che ci fai qui? Vai, magari trovi marito,” mi disse rassegnata.

Partii. Sognavo di diventare medico, ma con la mia scuola di provincia era improbabile. Mi iscrissi a un corso per infermieri. Mi piacevano quei camici bianchi.

Nella stanza del dormitorio condividevo il letto con la bellissima Margherita. Dio l’aveva benedetta: capelli ricci e neri, occhi grandi, labbra rosse, un corpo da favola. Io, al confronto, sembravo uno straccio.

La guardavo con invidia, e lei, accanto a me, si sentiva una dea. Eravamo amiche, finché Margherita non conobbe Paolo, uno studente d’ingegneria.

Quando lo vidi, persi la testa. Era impossibile resistergli. A volte veniva a prenderla al dormitorio, ma lei studiava sempre, voleva laurearsi con lode. “Esci pure con Giulia, io devo finire il capitolo,” lo mandava via.

Io avrei dato qualsiasi cosa per stare al buio con lui, ma Paolo non mi degnava di uno sguardo. Si sedeva, sospirava, e se ne andava.

“Perché lo tratti così? Se qualcuno mi aspettasse, sarei al settimo cielo,” protestavo.

“Che ci vedi in lui? Si diverte con chiunque. Cerca qualcuno più alla tua portata,” mi consigliava Margherita, con falsa gentilezza.

Una sera, Paolo arrivò e Margherita non c’era. Sulla tavola c’era una padella di patate fritte con pancetta, il profumo riempiva tutto il corridoio. Gli brillavano gli occhi.

“Vuoi cenare con me?” gli chiesi.

Non se lo fece ripetere due volte. Mangiava come un lupo, io lo guardavo estasiata, sperando che Margherita tardasse ancora.

“Saresti una brava moglie,” mi disse finalmente, appoggiandosi alla sedia, sazio.

Un sabato, Paolo venne per andare al cinema con Margherita, ma lei era andata a casa dei suoi genitori.

“Ho già i biglietti,” si lamentò.

“Allora vieni con me,” lo sfidai.

Uscimmo insieme. Rideva alle mie storie, e a un certo punto gli presi il braccio, fingendo noncuranza. Al cinema, aspettavo che mi prendesse la mano. Non lo fece, ma durante una scena paurosa, mi aggrappai a lui e non mollai più.

Dopo, mi accompagnò al dormitorio.

“Vogliamo fermarci a mangiare qualcosa?”

“Perché sprecare soldi? Ho pancetta e patate a casa, molto meglio.” Lo portai con me.

Bevemmo del vino, e dopo Paolo si addormentò sul letto di Margherita. Io mi sdraiai vicino, e lui, mezzo addormentato, mi baciò.

“Scusa,” mi disse il mattino dopo. “Non dirlo a Margherita, okay?”

Non mi sentii in colpa, solo felice. Lui, del resto, non ci pensò più. Tre settimane dopo, scoprii di essere incinta.

“Di chi?” chiese Margherita.

“Di Paolo.”

“Furba. Non illuderti, non ti sposerà.”

Gli confessai tutto.

“È stato un errore. Sistemati da sola,” mi rispose.

Partorii prima della laurea. Margherita mi aiutò con i soldi per una stanza. La padrona di casa, Rosa, si affezionò alla bambina. Feci lavoretti, iniezioni alle anziane, trovai lavoro in ospedale.

Paolo ricomparve un giorno, curioso della figlia. Tornò a farci visita, portando regalini. Quando Rosa morì, scoprii che mi aveva lasciato l’appartamento.

Paolo un giorno mi chiese di sposarlo. Accettai, sapendo che lo faceva per la casa. Viveva la sua vita, tornava quando voleva. Ma almeno tornava.

Poi si innamorò di una cantante di night. Lo lasciai andare, senza lacrime.

Ma anni dopo, la cantante venne da me: “Prenditelo. È caduto da un’impalcatura, è pieno di fratture. Io me ne vado.”

Andai a prenderlo in ospedale. Era un’ombra di sé. Lo curE mentre lo aiutavo a rialzarsi, capii che, nonostante tutto, la vita ci aveva riuniti di nuovo, non per caso, ma perché il destino, a volte, sa essere più gentile di quanto meritiamo.

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