L’Approfittatrice: La Suocera Cacciò Fuori di Casa la Nuora con un Bambino Piccolo, Ma Non Poteva Immaginare ciò che Accadde Dopo

**9 maggio**
Michele finalmente si è addormentato alle tre. Ero seduta sul bordo del letto, immobile, con il braccio intorpidito e la spalla indolenzita, ma non osavo muovermi. Gli stavano spuntando i dentinile gengive arrossate, i pugni sempre in bocca, quel pianto che mi spezzava il cuore.
Sembrava non dormisse da uneternità. Appena tentavo di metterlo nella culla, si svegliava, come se sentisse che volevo scappare. Solo sette mesi, eppure in questo tempo ho vissuto una vita intera. Amore, dolore, angoscia, felicitàtutto annodato in un groviglio che ormai non si scioglierà più.
Quando il respiro si è fatto regolare, mi sono alzata con cautela. Nella finestra di fronte brillava una lucequalcuno, nel nostro palazzo di nove piani, era ancora sveglio. Chissà chi era: unaltra madre stremata come me? Un anziano insonne? Due innamorati? Una volta sognavo che io e Riccardo avremmo comprato casa, e io avrei guardato il cortile dalla mia finestra. Ma quei sogni sono svaniti come fumo.
Tre anni alla cassa del supermercato, e tutti i miei risparmi erano finiti nel nulla. Primalanticipo per il mutuo che non abbiamo mai firmato. Poii soldi per ristrutturare questa casa dove vivevamo con Anna Maria, la madre di Riccardo. “Sarà più accogliente”, diceva lui. Ma più accogliente lo era diventato solo per loro.
Da quando varcai quella porta con una valigia e la stupida speranza di una vita felice, non mi sono mai sentita a casa.
“Tutto si sistemerà”, prometteva Riccardo un anno e mezzo fa. “Ci sposeremo in estate”, diceva prima che rimanessi incinta. “Aspettiamo un po”, sussurrava quando nacque Michele. Annuivo. Credevo. Aspettavo. Ma quel timbro sul passaporto, per qualche motivo, a lui sembrava superfluo.
Anna Maria ogni mattina faceva tintinnare le chiavi nellingresso, pronta per il lavoro in ufficio. La chiamavo mentalmente “il barboncino”piccola, petulante, con il naso sempre allinsù. Con me parlava solo per necessità, come se non fossi la madre di suo nipote, ma laiuto domestica temporanea. Se cucinavo, storceva il naso: “Non sai maneggiare gli ingredienti”. Se lavavo: “Queste sono cose costose”. Tutto con un sorriso velenoso.
“Ginevra, potresti lavare il pavimento?”, diceva nel mio unico giorno libero. “Ginevra, ho comprato la ricotta per Michelino”, aggiungeva, anche se io non le avevo mai chiesto nulla.
La sua camera era sempre chiusa a chiave. In nostra assenza, controllava le nostre cose. Una volta lho sorpresa a frugare nel mio armadio. “Cercavo un asciugamano”, disse senza vergogna.
In cucina, regnava un ordine particolare. I suoi piattiseparati. Le nostre stovigliea parte. La sua padella, le sue pentole, la sua frusta. Niente in comune. Se Riccardo tardava, cenavo in camerapur di non sedermi a tavola con lei.
Eppure, in qualche modo, andavamo avantigiorno dopo giorno, mese dopo mese. Prima di Michele potevo ancora scappareal lavoro, dalle amiche, a farmi una passeggiata. E ora? Con un bambino in braccio, trenta euro nel portafoglio e quattrocento di sussidi sul conto.
Chiusi la porta silenziosamente e uscii nel corridoio. Avevo sete, la testa pulsava per la mancanza di sonnola seconda notte di fila. Ieri Michele si era svegliato alluna e mezzo e si era riaddormentato alle cinque. Alle dieci del mattinodi nuovo in piedi. Camminavo come uno zombie, gli occhi pieni di sabbia.
In cucina, la luce era accesa. Anna Maria era ancora sveglia. Volevo solo prendere dellacqua e andarmene, ma non feci neanche un passo.
“Ancora alzata?”, si girò mia suocera. “Sei sempre al telefono, ho visto la luce sotto la porta.”
“Michelino non dorme”, risposi. “Ha i dentini che spuntano…”
Sbuffò. In quel suono cera tuttoincredulità, linsinuazione che io fossi pigra, e il solito “ai miei tempi lavoravo e crescevo i figli”.
“Potresti fare meno rumore?”, chiesi, sussultando per il fracasso dei piatti. “Michelino si è appena addormentato.”
Qualcosa le lampeggiò negli occhi. Si girò verso il lavandino, si curvò, e poi…
Poi si voltò verso di me. La faccia contratta, le pupille strette. Appoggiò la tazza sul tavolo con un colpo secco.
“Meno rumore?”, ripeté Anna Maria. “Devo camminare in punta di piedi in casa mia?”
Mi appoggiai allo stipite. Sette mesi senza dormire. Sette mesi in quei dieci metri quadri, dove ogni passo era come un campo minato.
“Ho solo chiesto di non sbattere le stoviglie”, dissi piano.
“O forse non sai far addormentare i bambini?”, incrociò le braccia. “Io ne ho cresciuti due. Nessun problema con i denti. Dormivano come angioletti.”
Serrai i denti. Nella camera accanto dormiva mio figlio, mentre in quella cucina minuscola si stava scatenando una tempesta. Qualsiasi cosa avessi detto, sarebbe stata sbagliata. Se tacevoero una madre incapace. Se replicavoscatenavo una lite.
“Volevo solo dellacqua”, borbottai, facendo un passo verso il rubinetto.
“Certo”, non si mosse. “A te serve sempre qualcosa. Riposare, stare al telefono. Ma lavorare? Quello no, eh?”
Mi bloccai. Lavorare? Con un bambino di sette mesi che non dorme la notte?
“Tornerò a lavorare quando Michele avrà un anno e mezzo”, dissi ferma. “Come avevamo concordato.”
“Concordato”, rimarcò. “Mio figlio è di ferro? Mantiene la famiglia da solo. E tu spendi solo soldi. Quanto costano quelle tende? E il passeggino importato?”
La guardai, incredula. Le tende a ottanta euro? Il passeggino usato a cinquecento?
“A proposito di soldi”, i suoi occhi brillarono. “Hai mai pagato un affitto? Le bollette? Sei solo un peso. Nessuno ti ha chiamata. Riccardo viveva tranquillo, e tu…”
Qualcosa dentro di me si spezzò. Ero paralizzata. Avrei voluto urlare: “E chi ha pagato la ristrutturazione della tua camera? Chi ti ha comprato il frigorifero? Dove sono finiti i miei risparmi?”
Ma tacqui. Avevo imparato a ingoiare i torti. Per Michele. Per Riccardo. Per quella stupida pace fittizia.
“Credi che non veda come guardi le mie cose?”, la sua voce tremava. “Pensi che porterai via mio figlio e tutto il resto?”
Mi irrigidii. Di quali cose parlava? Del servizio da tè sbeccato che trattava come oro? Delle pentole vecchie che non potevamo usare? Io e Riccardo non avevamo nullasolo debiti e una culla…
Non ce la feci più.
“Non. Mi. Servono. Le tue cose”, dissi chiaro, nonostante le mani tremassero. “Non sono qui per voi. E non per questo.”
“E allora per cosa?”, fece un passo avanti, il viso deformato. “Per mio figlio, che hai intrappolato? Per la casa che non avrai mai? Per i soldi?”
Come

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