**Diario Personale**
La gente penserà che ho avuto una fortuna incredibile nella vita.
Avevo sempre detestato il mio nome, Beatrice, e ancora di più il cognome – Tassi. I ragazzi a scuola erano spietati, e fin dalle elementari mi avevano affibbiato il soprannome “La Talpa”.
Mi osservavo allo specchio sognando lunghi capelli biondi come quelli di Sofia Colombo, o le gambe slanciate di Giulia Ferrara, o almeno dei genitori alla moda come quelli della svogliata Marta Bonetti, che arrivava ogni mattina in una Lexus con l’autista. «Perché mia madre ha sposato un uomo con un cognome così orribile? Avrebbe dovuto pensarci a come mi sentirei. Io sposerò solo qualcuno con un cognome normale, o meglio, straniero».
Mi infastidivano i miei capelli scuri, ribelli, che si arricciavano in tutte le direzioni, sfuggendo a forcine e cappelli. Gli occhi grigio chiaro sulla pelle olivastra erano intensi e misteriosi, ma nemmeno quelli mi piacevano.
Mia madre faceva la contabile in un ospedale, mio padre guidava l’autobus. I soldi non bastavano mai. Lui risparmiava per comprare un’auto e controllava ogni spesa con gelosia. «Basta vestiti nuovi, non siamo milionari», brontolava se mi vedeva con qualcosa di diverso. Spesso indossavo i vestiti smessi di mia cugina, e solo se a lei non andavano bene. Quanto mi pesava tutto questo. Se avessi avuto genitori normali, nessuno mi avrebbe chiamata “La Talpa”.
Poco prima degli esami di maturità, arrivò zia Lucia, sorella di mio padre. Lavorava come domestica per una famiglia ricca a Firenze.
«Vuoi sapere come venire qui?», mi sussurrò una sera a letto. Dormivamo insieme nella mia stanza.
«Certo!», esclamai euforica.
«Zitta! Tuo padre non approverebbe. Hai diciotto anni?»
«Sì, compiuti a gennaio». Il cuore mi batteva forte.
«Perfetto. Non serve il loro permesso. Fai come ti dico e tutto andrà bene. Tuo padre è sempre stato tirchio.»
Sembrava una vera signora fiorentina, nessuno avrebbe mai immaginato che facesse le pulizie. «L’importante sono i soldi, non come li guadagni», diceva.
Mi ossessionò quell’idea. Zia Lucia mi prestò dei soldi, dicendo che li avrei restituiti appena avessi lavorato.
Feci tutto come mi aveva consigliato. Per ingannare i miei genitori, mi iscrissi a un corso da parrucchiera, ma quando arrivò la chiamata dall’Italia, mollai tutto, preparai la valigia, lasciai un biglietto e partii.
A Firenze mi aspettava zia Lucia. Mi portò in una villa lussuosa alla periferia della città, dove avrei dovuto assistere un’anziana signora di ottant’anni.
«Non deludermi. Non rubare. Ho dato la mia parola per te», mi avvertì, mentre io tremavo per la mia audacia e la fuga.
La villa mi lasciò senza fiato. Fui sistemata in una stanzetta accanto alla camera della signora. Ero contenta di non dover pagare un affitto. Per pochi euro in più, pulivo la casa due volte a settimana. Quasi non uscivo mai. La mia Italia si limitava alle mura della villa e al prato perfetto fuori dalla finestra. Ma non mi importava. Un anno sarebbe volato, e poi avrei trovato altro. Avrei messo da parte i soldi, imparato la lingua e visto cosa fare.
Diventai avara come mio padre, e del resto, non avevo modo di spendere. Scattavo selfie tra i mobili lussuosi del salotto quando i padroni erano via e li postavo sui social. «Che pensino che ho una vita meravigliosa».
Le ex compagne mettevano like, invidiose. Nessuno mi chiamava più “La Talpa”, solo Beatrice, chiedendomi come avrei fatto a restare. Io rispondevo con frasi vaghe.
Un giorno, uno dei miei post attirò l’attenzione di Marco, un ex compagno. Iniziammo a scriverci. Lui parlava poco di sé, diceva solo che lavorava in un’officina, guadagnava bene e aveva comprato un’Audi. Postò una foto accanto a una macchina rossa.
Ma poi iniziò a parlare d’amore. Diceva che gli dispiaceva fossimo lontani, chiedeva quando sarei tornata. Io evitavo le risposte dirette: «Non ho intenzione di tornare, qui è fantastico». Sapevo che la sua attenzione era influenzata dalla mia nuova vita italiana. Ma lui insisteva: «Mi sei sempre piaciuta, fin dalle medie». Era vero, spesso mi guardava. Volevo credergli. E ci credevo.
Una sera i padroni andarono a una cena. Di solito tornavano all’alba. L’anziana dormiva. Entrai nel guardaroba e provai i vestiti della signora. Uno rosso, senza spalline, mi stava a pennello. Lei era magra e piatta, io invece avevo un fisico prosperoso. Per la prima volta, mi piacqui.
Versai del vino e iniziai a filmarmi per i social, seduta sul divano, davanti a quadri di paesaggi. Postai tutto con frasi come: «Di ritorno da un galà… Troppo stanca per cambiarmi. Un bicchiere per rilassarmi…».
Bevvi quel bicchiere. Poi un altro. E mi addormentai sul divano, ancora vestita.
Mi svegliai alle urla della padrona. Strillava in un italiano così veloce che non capii nulla, finché non mi indicò la porta. Capii che mi cacciava. Andò a prendere le mie cose e me le scaraventò addosso.
Mentre infilavo tutto in valigia, tra le sue grida, vidi il mio riflesso nello specchio e sorrisi: almeno potevo tenere quel vestito. Ma mi sbagliavo. All’ultimo, mi obbligarono a restituirlo.
Lo sguardo vorace del marito, grasso e calvo, mi scrutava mentre lo toglievo, rimanendo solo in mutandine. Poi infilai i jeans mentre lui sussurrava qualcosa alla moglie. Forse pregava di perdonarmi. Lei urlò ancora di più.
Scrollai i capelli ribelli, sorrisi e uscii prima che finissero di litigare. Per strada, ripensavo a come mi aveva guardato. «Se solo avesse visto prima cosa si perdeva… Magari avrebbe cacciato quella strega e io sarei diventata la padrona di casa».
Senza conoscere bene la lingua, senza referenze, non potevo trovare altro lavoro. Chiamai zia Lucia, ma era fuori Firenze. Mi disse di aspettare una settimana. Ma dove? Decisi di tornare a casa, in Italia settimana. Avevo risparmiato qualcosa. Se mio padre non aveva ancora comprato la macchina, forse avrei potuto aiutarlo.
Scesi dal treno. La stazione era sporca, le strade dissolte, i palazzi scrostati: niente a che vedere con Firenze. Mi pentii di essere tornata. Ma almeno non dovevo più sforzarmi di capire l’italiano.
Davanti alla stazione, i taxi e le macchine dei privati aspettavano clienti. In una di esse riconobbi Marco. Per un attimo imbarazzato, poi sorrise.
«Perché non mi hai avvertito? Sarei venuto all’aeroporto a prenderti.»
«Dov’è l’Audi? Mi hai mentito?»
«Sì. Se ti avessi detto che faccio il meccanico e che l’Audi è un sogno, non mi avresti mai risposto. Ma questo lo faccio nel tempo libero.»
«Va bene.» Lo guardai meglio, era diventato più bello. «Sei cambiato.»
«Tu sei ancora più carina.» Mi fiss”Allora rimani, Beatrice,” mi disse Marco prendendomi la mano, e in quel momento capii che forse la vera fortuna era tornare a casa.