Avevo sempre paura del divorzio. Anche solo il pensiero che il mio matrimonio potesse sgretolarsi mi sembrava un incubo impossibile. Credevo davvero che tra me e mio marito andasse tutto bene, che fossimo una di quelle coppie indistruttibili, capaci di resistere agli anni, alla routine, alle difficoltà. Avevamo una figlia meravigliosa, Sofia, io gestivo uno studio di architettura a Firenze, lui lavorava come infermiere in una clinica privata. Vivevamo in pace, con tranquillità, o almeno così mi sembrava.
Poi, un giorno, tutto cambiò.
All’inizio pensai che fosse solo un periodo difficile per lui. Adriano cominciò a tornare a casa sempre più tardi, giustificandosi con turni pesanti e troppo lavoro. Si irritava per nulla, rifiutava le mie proposte di passeggiare insieme, non mi ascoltava più. E quando, tra le lacrime, gli chiesi cosa stesse succedendo tra noi, mi rispose stanco: «Sono esausto. Mi dai fastidio anche qui. Smettila di aggrapparti a me».
Tacqui. Iniziai a stargli lontana, a camminare da sola la sera, a cenare in silenzio. Lui usciva all’alba e rientrava a notte fonda. Un estraneo.
Il mio cuore sapeva: non era solo. Ma scacciavo quei pensieri. Finché non sentii la conversazione che mise tutto in chiaro.
Ero appena rientrata da una passeggiata quando lo udii parlare in camera:
«Amore, farò tutto come abbiamo detto. Ti prometto che lascerò lei. Aspetta solo un po’. Non arrabbiarti, Anna… ti prego, non riattaccare…»
Mi bloccai. Poi entrai in cucina e crollai. Dentro di me era esploso tutto. Lui non si giustificò, non spiegò. Prese le sue cose e se ne andò. Da lei. Dalla sua giovane “amante”.
Io rimasi. In un appartamento vuoto, tra le foto alle pareti che ci ritraevano ancora come una famiglia. I mesi si trascinarono come secoli. Non riuscivo a mangiare, dormire, lavorare. Nemmeno Sofia, pur provandoci, riusciva a riempire quel vuoto. A volte i clienti mi invitavano a prendere un caffè dopo un incontro, mi facevano complimenti, ma io rifiutavo educatamente. Pensavo di non poter amare più nessuno.
Poi arrivò lui — Enrico. Un uomo distinto sulla cinquantina, sicuro, curato, con una voce calma e uno sguardo attento. Ci commissionò il progetto per un nuovo ufficio. E non seppi dirgli di no. Non al lavoro, non alle conversazioni. E poi, non alle cene, alle passeggiate, al tocco delle sue mani.
Quando l’ufficio fu pronto, Enrico mi invitò all’inaugurazione. Fu una serata di musica, risate e vino leggero. Restammo soli fino a tardi… E al mattino mi svegliai tra le sue braccia. Per la prima volta dopo tanto tempo, non provai dolore. Mi sentivo desiderata, autentica, senza maschere né obblighi.
Lui non era solo un uomo. Divenne il mio sostegno, l’aria che respiravo. Con lui, tornai a vivere.
Qualche giorno dopo, incontrai Adriano. Era davanti alla porta di casa mia. Lo stesso di sempre. Ma con gli occhi pieni di incertezza.
«Perdonami, Giulia. Sono stato un idiota. Anna… era solo una ragazzina. Credevo di aver bisogno di una vita nuova, ma mi sono accorto che tu eri tutto quello che avevo di vero.»
Lo guardai senza rabbia, senza dolore. Solo stanchezza. Perché ora sapevo: la felicità non è nel recuperare chi ci ha fatto soffrire, ma nel ritrovare sé stessi.
«Adriano, è troppo tardi. Ho trovato qualcuno con cui sono felice.»
Se ne andò, solo. E capii che ora era lui ad aver paura della solitudine. Proprio come me, un tempo.
Presto io ed Enrico ci sposeremo. Poi partiremo per quel viaggio che sognavo fin da giovane, ma che non avevo mai avuto il coraggio di fare. Ora quel coraggio ce l’ho. E c’è anche l’amore.
A volte il destino ci spezza solo per darci la possibilità di ricominciare. Non con chi ci ha traditi, ma con chi ci ha scelti—senza sapere nemmeno quanto ci avessero fatto soffrire.