Le difficoltà ci hanno unito, ma nostra figlia cresce senza fratelli e sorelle.
Mi chiamo Anna Rossetti e vivo a Lucca, dove la Toscana conserva i suoi antichi tesori e le tranquille rive del Serchio. Fin da bambina ho sognato di diventare madre — era il mio desiderio più profondo e incrollabile. Nella nostra famiglia eravamo in tre: mia madre si dedicò interamente a noi, lasciando il lavoro per crescerci con amore. Questo ideale — una grande famiglia rumorosa — mi si è impresso nell’anima. Non potevo immaginare la mia vita in altro modo: una casa accogliente, piena di voci di bambini, risate e piccoli passi. Ma il destino ha voluto diversamente e i miei sogni si sono infranti contro la dura realtà, lasciando solo frammenti di speranza.
Per tre lunghi anni io e mio marito, Domenico, abbiamo cercato di avere un bambino. Ogni mese rappresentava una nuova speranza, ogni volta una nuova delusione. Piangevo di notte, guardando il soffitto, mentre lui mi abbracciava in silenzio, nascondendo il suo dolore. Alla fine, il ginecologo ci diede una diagnosi: «La fecondazione in vitro è la vostra unica possibilità». Ci siamo decisi, e al primo tentativo abbiamo ricevuto un miracolo — nostra figlia Elisa, che ora ha 14 anni. La tenevo tra le braccia, minuscola e calda, e pensavo: ecco la felicità. Ma volevo di più — donarle fratelli e sorelle, affinché crescesse circondata da anime affini, come era stato per me.
Un anno e mezzo dopo abbiamo riprovato. Quattro tentativi — quattro colpi del destino. Ogni volta credevo che ce l’avremmo fatta. Ogni volta cadevo nel baratro della disperazione quando le speranze svanivano. Dopo il quarto fallimento, mi sono arresa. «Sarà così — mi dissi, stringendo i pugni — ho una figlia». Il sogno sfuggiva come sabbia tra le dita, e quel dolore era insopportabile — tagliente come un coltello nel cuore. Guardavo Elisa e provavo un senso di colpa: non ero riuscita a darle ciò che io stessa avevo desiderato.
A volte penso: se non mi fossi aggrappata a quel ideale, non ci sarebbero state queste procedure dolorose, queste lacrime, questo vuoto. Mi tormentavo il corpo e l’anima, mentre Domenico mi supplicava di fermarmi prima. «Ti spingerai al limite — diceva, guardando le occhiaie sotto i miei occhi. — Ho paura per te, per la tua salute». Vedeva come affondavo nella depressione, ma non potevo lasciar andare il sogno. Ora capisco: aveva ragione, e io ero cieca nella mia ostinazione.
Nostra figlia cresce da sola. È il mio più grande rammarico. Avrei voluto che conoscesse la gioia dei fratelli e delle sorelle — le loro marachelle, il loro sostegno, il loro calore. Ma Elisa è figlia unica, e in questo risiede il mio dolore, il mio vuoto immenso. Eppure, queste difficoltà ci hanno temprato, me e Domenico. La lotta per i figli, anche se infruttuosa, ci ha reso più forti, come acciaio forgiato nel fuoco. Abbiamo imparato ad apprezzarci, a starci vicini nonostante le tempeste. Oggi guardiamo avanti, gioiamo per Elisa — il suo sorriso, i suoi successi. Non posso dire di essermi completamente rassegnata al fatto che non ci sarà un secondo figlio. Ho 42 anni e so che il tempo è passato, le possibilità sono quasi nulle. Ma ho imparato a convivere con questo, anche se con una malinconia sottile nel cuore.
Noi tre — io, Domenico ed Elisa — viviamo in armonia. La nostra casa è piena di calore, anche se non tanto vivace come l’avevo immaginata nella mia infanzia. Guardo mia figlia e vedo in lei il meglio di noi: la sua testardaggine, la sua gentilezza, la sua luce. Cresce senza fratelli e sorelle, e questo è l’unico rimpianto che porto nel cuore. Avevo sognato di regalarle una famiglia rumorosa, dove nessuno fosse solo, ma la vita ha deciso altrimenti. Eppure, siamo felici — non in modo perfetto, non come nei miei sogni, ma autenticamente. Le difficoltà non ci hanno spezzati, ci hanno uniti, e sono grata al destino per questo.