Le scarpe del padre e il ragazzo che cerca di indossarle

Le scarpe del padre — e il bambino che cerca di indossarle

In una tranquilla mattina, nella piccola casa alla periferia di Cagliari, regnava il solito silenzio che Marco amava tanto. Una luce soffusa filtrava dalle tende, dalla cucina arrivava l’aroma di caffè appena fatto, e finalmente aveva un attimo raro per sedersi con un libro. Ma quella pace fu interrotta da strani rumori: un trascinarsi goffo, uno sciacquio e un sommesso «accidenti» infantile, come se qualcuno avesse rubato quella parola dagli adulti.

Marco si affacciò nel corridoio e si fermò. C’era suo nipote, Luca.

Piccolo, con i capelli arruffati e il pigiamino con i disegni dei calciatori, cercava seriamente di camminare lungo il corridoio… con le vecchie scarpe di cuoio che stavano solitarie vicino alla porta. Quelle che Luca chiamava «le scarpe del papà». Anche se, da mesi, suo padre, Matteo, non c’era più — partito per un lungo lavoro all’estero, lasciando la famiglia nell’attesa.

«Luca, che stai facendo?» chiese piano Marco, temendo di spezzare quel momento fragile.

Il bambino non si voltò, concentrato a guardare i suoi piedi.

«Voglio provare a essere grande» rispose, facendo un passo prudente. Una scarpa scivolò, e Luca sbuffò, si chinò per rimetterla a posto.

Marco si sedette sulla panchetta vicino al muro, sentendo il cuore stringersi di tenerezza. Sapeva che non doveva intervenire. A volte, ai bambini va permesso di indossare qualcosa che non è loro, per capirsi meglio.

«Credi che essere grandi sia facile?» chiese dopo una pausa, cercando di non distrarlo.

Luca annuì, senza staccare gli occhi dalle scarpe.

«Voi e papà sapete tutto. E nessuno vi dice cosa fare.»

Marco sorrise, ma in quel sorriso c’era amarezza. Ricordò quando da piccolo aveva messo gli stivali di suo padre — pesanti, enormi, con la pelle consumata. Allora gli sembrava che indossarli lo avrebbe reso subito più forte, più alto, quasi invincibile. Ma dopo due passi aveva capito quanto fossero scomodi: le dita ballavano, il tallone scivolava, ogni passo era una lotta.

«Sai…» cominciò Marco, «queste scarpe sono quelle con cui tuo padre è andato al suo primo lavoro. Sono vecchie, ma le ha tenute. Diceva che con loro è cominciata la sua vita da adulto.»

Luca si immobilizzò, fissando le scarpe. I suoi occhi, troppo seri per un bambino di sette anni, brillavano di curiosità e altro ancora — come se cercasse di cogliere in quei «giganti» di cuoio consumato i segni del destino di suo padre.

«Lo stesso, voglio camminarci dentro» disse ostinato. «Per cominciare anch’io.»

«Solo per un po’» rispose dolcemente Marco. «Poi torna nelle tue pantofole. Avrai tempo per diventare grande.»

Luca annuì e, barcollando, fece altri due passi. Il viso era teso, ogni passo, un piccolo eroismo. Nei movimenti si vedeva la determinazione, come se non stesse camminando lungo il corridoio, ma su un ponte invisibile verso il futuro.

Marco lo guardò, e nel petto si diffuse un calore profondo. Essere adulti non riguardava le scarpe, né i vestiti eleganti o le risposte pronte. Riguardava alzarsi la mattina anche quando tutto dentro vorrebbe restare a letto. Perdonare, anche quando nessuno lo chiede. Proteggere chi si ama, anche se il cuore trema di paura.

Ma tutto inizia proprio così: con un bambino piccolo che indossa le scarpe enormi del padre e fa il primo, goffo passo in un mondo ancora troppo grande per lui.

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