Un terribile errore
Sofia si svegliò di colpo per il dolore. Qualcosa aveva sognato prima di aprire gli occhi, qualcosa di importante. Ma il male la distrasse, e d’un tratto il sogno svanì. Mai aveva sentito una fitta così forte alla pancia, che le si irradiava persino nella schiena.
Rimase immobile, ascoltando il proprio corpo. Sembrava che il dolore stesse diminuendo. Si mise a sedere con cautela, ma appena provò ad alzarsi, una nuova ondata di trafitture la colpì. Urlò e scivolò giù dal letto, inginocchiandosi a terra. A quattro zampe raggiunse il comodino dove aveva lasciato il telefono in carica.
Chiamò l’ambulanza così, in ginocchio, con una mano appoggiata per terra. «Devo calmarmi, arriveranno presto», si ripeteva Sofia. «Ma la porta? Devo aprirla!» Si trascinò fino all’ingresso. Il dolore pulsava, la pancia era in fiamme.
Cercò di alzarsi per sbloccare la serratura, ma una coltellata la piegò di nuovo. Le lacrime le annebbiarono la vista. Ecco la vera paura della solitudine: non il non poter chiedere un bicchiere d’acqua, ma il non poter aprire la porta a chi ti salva. Si morse il labbro fino a farlo sanguinare e fece un ultimo sforzo. Riuscì a sbloccare la porta, poi perse i sensi.
Attraverso la nebbia nella sua mente, frammenti di frasi le giungevano sfuocate. Qualcuno le faceva domande. Forse aveva risposto, o forse le era solo sembrato.
Si risvegliò in una stanza d’ospedale, accecata dal basso sole autunnale che entrava dalla finestra. Si scostò con un sobbalzo, poi fece una smorfia per il bruciore sotto il torace. La pancia le sembrava gonfia, ma il dolore era quasi sparito.
Pochi giorni prima, mentre cercava per l’ennesima volta di lasciare Marco, aveva pensato che sarebbe stato meglio morire piuttosto che vivere così. Senza marito, senza figli. Completamente sola. A cosa serviva vivere? Eppure, quella notte, aveva avuto paura, aggrappandosi disperatamente alla vita. Aveva capito quanto fosse orribile morire così, all’improvviso, senza nessuno accanto.
“Sei sveglia? Ora chiamo l’infermiera.”
Sofia girò la testa verso la voce e vide un’altra paziente nel letto accanto: una donna robusta, dall’età indefinibile, avvolta in un accappatoio di flanella con fiori gialli su fondo azzurro.
Poco dopo entrò un’infermiera.
“Come ti senti?”, le chiese.
Era giovane, con le guance rosee. O forse sembrava così per il colore del cappellino che indossava?
“Meglio”, rispose Sofia. “Cosa mi è successo?”
“Tra poco arriva il dottore e ti spiegherà tutto.” La ragazza col cappellino sorrise e uscì.
Sofia notò la lunga treccia bionda che le scendeva fino alla vita. «Ma le ragazze portano ancora le trecce?», si chiese.
“Sei nel reparto di ginecologia. Ti hanno portata qui un paio d’ore fa. Hai dormito tanto, piccola”, disse la vicina di stanza.
“Piccola”. Ultimamente la chiamavano sempre più spesso “signora” al supermercato o sui mezzi pubblici. Sofia si sentiva già vecchia. Eppure, che vecchia era? Soltanto quarantadue anni. Forse per questo, quando qualcuno cercava di presentarle un pretendente, li scacciava dicendo che era troppo tardi, che non aveva bisogno di nessuno. Per questo continuava a provare a lasciare Marco, ma lui tornava sempre.
“Come ti senti?” Entrò un dottore sulla cinquantina.
“Dottore, cosa è successo? Mi hanno operata? Ho l’impressione di aver ingoiato un palloncino.”
“Signora Mancini, la aspettano in sala medicazioni”, disse il medico all’altra paziente.
La donna si alzò, si sistemò l’accappatoio e uscì a malincuore.
Sofia guardò negli occhi stanchi del dottore con gratitudine.
“Le abbiamo fatto una laparotomia. Aveva una gravidanza extrauterina, la tuba è esplosa.”
“Come?” Sofia quasi balzò dal letto per lo stupore. I muscoli addominali si contrassero, scatenando un nuovo dolore.
“Cosa la sorprende tanto?” chiese il dottore.
“Ma… mi avevano diagnosticato l’infertilità.”
“Questo non esclude la possibilità di una gravidanza extrauterina, né di una normale. Nella vita accadono miracoli, creda a me. Resterà qui qualche giorno.”
“Posso alzarmi?”
“Anzi, deve. Ma senza esagerare.” Il dottore uscì.
Sofia rimase a digerire l’informazione. Le avevano detto che non poteva avere figli. Suo marito l’aveva lasciata per questo. O meglio, quella era solo una scusa per le sue infedeltà. «Ma davvero posso rimanere incinta? Di cosa sto parlando? Ho quarantadue anni, è troppo tardi», si bloccò. «Perché non ho chiesto subito al dottore?»
Si sedette sul letto, lasciando scivolare i piedi a terra. Le sue ciabatte erano lì, sulla spalliera c’era il suo accappatoio. Probabilmente l’aveva preso l’ambulanza. Non sentiva più dolore, solo un fastidioso indolenzimento muscolare.
Indossò l’accappatoio, infilò le ciabatte e si alzò. La testa le girava leggermente. “L’anestesia”, pensò. Sentì un peso nella tasca. “Le chiavi di casa. Il passaporto. Significa che hanno chiuso la porta.”
Non c’era uno specchio sopra il lavandino. Sofia si sistemò i capelli a mano e uscì nel corridoio. Raggiunse lentamente la porta con la targhetta “Medici”, ma era chiusa, con la chiave ancora nella serratura. Proseguì verso il banco delle infermiere, sperando di scoprire quando sarebbe tornato il dottore e come si chiamasse.
La testa le girò di nuovo, la nausea le salì in gola. Si sedette su una panca nel piccolo atrio, prima di arrivare alla postazione.
«Chissà se Marco sarebbe felice di sapere che potevo rimanere incinta di lui», pensò. Si erano conosciuti cinque anni prima. Lui le aveva subito detto di essere sposato. Si era sposato tardi. Aveva una figlia piccola.
La loro relazione era stata intensa fin dall’inizio. Sofia non si era illusa. Aveva provato mille volte a lasciarlo. Lui si offendeva, se ne andava, ma poi tornava. All’inizio prometteva di lasciare la moglie quando la bambina fosse cresciuta un po’ e lei avesse ripreso a lavorare. Ma la figlia era ormai a scuola, e lui era ancora sposato. Sofia non gli chiedeva più nulla. Ogni volta giurava che sarebbe stata l’ultima, ma quando bussava, lo faceva entrare.
Le sue riflessioni furono interrotte da una voce. Dal corridoio non vedeva il banco delle infermiere, né aveva prestato attenzione, finché non sentì il suo cognome.
“Immagina, durante l’operazione il dottor Rossi ha trovato un tumore. Enorme.”
Sofia riconobbe la voce dell’infermiera con la treccia.
“E allora?” chiese un’altra voce giovane.
“Niente. L’hanno richiusa e basta. Rossi ha detto che è all’ultimo stadio. Domani la trasferiranno in oncologia. E non è neanche”Ma quando Sofia tornò a casa, decisa a vivere ogni giorno come un dono, capì che l’unico vero errore sarebbe stato sprecare ancora tempo.”