**Lezioni di silenzio**
Quando Marco entrò in classe, erano le otto del mattino, e l’aria era impregnata di umidità, della colazione della mensa e del gesso vecchio. Un’atmosfera pesante pesava come nebbia fitta, e le assi del pavimento scricchiolavano sotto i piedi, quasi a lamentarsi dell’ora troppo presto. Chiuse la porta e per un attimo il suo sguardo si fissò alla finestra. Fuori cadeva una pioggerellina sottile, le gocce si accumulavano sul davanzale come se qualcuno avesse spalmato un’acquera grigia con noncuranza. Ottobre era freddo, umido, e il cuore si stringeva per la malinconia. Il freddo non era solo fuori: filtrava dentro, annidandosi negli angoli della stanza, nelle pause tra gli sguardi.
Gli studenti stavano zitti. Troppo zitti. Non semplicemente disciplinati, ma come congelati, in allerta, quasi sapessero già cosa stesse per accadere.
Marco si avvicinò alla cattedra, posò la cartella consumata, scrollò dalle spalle il cappotto ma non si sedette. Sembrava che non fosse entrato in una classe, ma in un posto dove era appena successo qualcosa d’irreparabile — e tutti avevano paura di nominarlo. Senza voltarsi, disse:
«Allora. Chi mi spiega perché i libri sono ancora chiusi?»
Silenzio. Nemmeno i soliti irrequieti che spingevano i compagni o sussurravano dietro i quaderni si muovevano, come se qualcuno avesse ordinato loro di tacere. La tensione era palpabile, come una corda tesa pronta a spezzarsi al minimo tocco. Marco si girò. Tutti gli sguardi erano puntati non su di lui, ma in fondo all’aula — dove, all’ultimo banco vicino alla finestra, sedeva Ginevra Lombardi.
Non piangeva. Fissava solo la finestra, dove la pioggia scivolava pigramente sul vetro, lasciando striature opache. Il suo viso era immobile, come scolpito nella cera. Sul banco, il diario era aperto su una pagina vuota, come se avesse voluto scrivere qualcosa ma la mano le avesse tradito. Accanto, una penna senza cappuccio, quella stessa che faceva scattare nervosamente durante i compiti in classe. Nient’altro. Nessun quaderno, nessun libro, nessun astuccio. Solo la borsa per terra, semiaperta, con un foglietto che spuntava, come un pensiero interrotto rimasto nel passato.
Marco aspettò. Poi si avvicinò lentamente a lei. Mentre camminava, disse agli altri:
«Gli altri aprano il libro di fisica. Terzo esercizio, leggete bene.»
Si sedette accanto a Ginevra. Lei non si mosse. Come se lui fosse un’ombra, invisibile.
«Che succede?»
«Niente», rispose a malapena. La voce era fragile, come vetro sottile, in bilico sul punto di rompersi. Ogni parola sembrava l’ultima.
Lui non insistette. Restò lì, accanto a lei. In silenzio. Poi si chinò, prese con delicatezza il quaderno dalla sua borsa e lo mise davanti a lei. Senza chiedere, senza guardarla negli occhi. Lei non oppose resistenza. Le mani restavano immobili sulle ginocchia, come quelle di una statua.
«Lombardi», sussurrò, «se c’è qualcosa di grave, puoi dirlo. Non tenertelo dentro. Non se ne va. Si accumula, come un peso.»
Lei aggrottò le sopracciglia. Le labbra tremarono appena. Si voltò di pochissimo, quasi impercettibilmente.
«E lei che direbbe? Come tutti? “Sei forte, resisti”? O inizierà a chiedermi cosa succede a casa, perché mia madre non esiste più se non quando piange in camera sua? Poi aggiungerebbe: “L’infanzia è il periodo più bello, goditelo”? Ridicolo, no? Godersi. Addormentarsi pregando di non sentire i suoi singhiozi nella stanza accanto. O il vicino che urla e butta i piatti. O il frigo che ronza, ma è vuoto. Questo, secondo lei, è il periodo più bello?»
La sua voce era calma, ma esausta. Come se avesse ripetuto quelle parole mille volte — nei pensieri, nei sogni, nella solitudine.
Marco tacque. Guardò il suo diario, dove ai margini erano disegnate case — solitarie, senza luce alle finestre. Una era sbarrata, come se fosse crollata.
Disse piano:
«A volte il silenzio è una via di fuga. Ma non una salvezza.»
Ginevra alzò gli occhi. Non c’erano lacrime. Solo ostinazione e stanchezza — quella che non viene da una sola notte insonne, ma da una vita troppo pesante per un cuore di ragazzina.
«Sa cosa vuol dire tornare a casa e fingere che vada tutto bene? Quando mio padre se n’è andato, mia madre si è spenta, e io preparo la pasta con quel che c’è, perché non c’è nemmeno un euro per il pane? E poi sorridere a scuola, perché devi, perché se non lo fai tu, chi lo farà? E aspettare che dietro il muro qualcuno urli ancora, sperando che prima o poi arrivi l’ambulanza, perché sai che arriverà. Lo sa, com’è?»
Parlava piano, ma la sua voce vibrava come una corda tesa — non per rabbia, ma per il peso di ciò che aveva tenuto dentro troppo a lungo.
Marco la guardò e tacque. Lei non si aspettava una risposta.
«Ho tredici anni. E so già che nessuno verrà ad aiutarmi. Tutti dicono le parole giuste, annuiscono, promettono. Poi spariscono. Non voglio che anche lei sparisca. E niente pietà. La pietà è guardare dall’alto in basso. Io non sono sotto.»
Lui annuì. Poi si alzò.
«Non guardo dall’alto. E non sparirò. Sarò qui. Ogni giorno alle otto. È tutto quello che posso dare. E anche… una minestra. Non dal nulla.»
Lei abbassò lo sguardo. Di colpo, come se avesse paura di crederci.
«Che minestra?»
«Con le verdure, il pomodoro, i legumi. Quella vera. La faccio io. Se vuoi, te la porto.»
«Se la porta», disse piano, «lavo io i piatti. Lo giuro.»
Avrebbe voluto dirle altro. Qualcosa di importante. Ma tacque. A volte il silenzio è anche una promessa, se dentro c’è calore.
Il gesso stridette sulla lavagna. Qualcuno iniziò a copiare l’esercizio. La vita continuava — né più forte né più piano, ma semplicemente come poteva.
Marco tornò alla cattedra. Alzò lo sguardo e vide che Ginevra aveva aperto il quaderno. Lentamente, come se temesse di essere fermata. Come fosse il primo gesto dopo un lungo torpore.
Finse di non accorgersene. A volte una lezione di silenzio parla più forte di mille parole.