Libera una stanza in casa, i miei genitori ci vivranno ora,” mi annunciò mio marito con un fatto compiuto.

Isabella era seduta alla scrivania quando qualcuno bussò alla porta dellufficio. Marco si affacciò, guardando il suo solito spazio con uno sguardo stranamente nuovo.

«Posso entrare?» chiese, già varcato lo stipite.

Lei annuì senza distogliere gli occhi dallo schermo. La casa, ereditata da zia Lucia cinque anni prima, era ampia, luminosa, con tre stanze. Isabella aveva trasformato una di esse nel suo angolo di lavoro ideale: ordine e silenzio regnavano lì.

«Ascolta», iniziò il marito, sedendosi sul bordo del divano, «i miei genitori si lamentano ancora del trambusto della città.»

Isabella si voltò finalmente verso di lui. Dopo dieci anni di matrimonio aveva imparato a riconoscere le intonazioni di Marco. Cera unincertezza nella sua voce.

«Mia madre dice che dorme male per il rumore», proseguì Marco. «E mio padre continua a dire che è stufo di tutta questa corsa. Inoltre, laffitto sta salendo sempre di più.»

«Capisco», rispose brevemente, tornando al lavoro.

Ma il discorso sui genitori non si placò. Ogni sera Marco trovava un nuovo motivo per citarli: a volte la pressione dellaria cittadina, a volte i vicini rumorosi al piano di sopra, a volte le scale delledificio troppo ripide.

«Sognano tranquillità, lo sai», disse una volta a cena. «Un po di pace, una vera casa.»

Isabella masticò lentamente, riflettendo. Marco non era mai stato loquace; quellinteresse per i problemi dei suoi genitori le sembrava strano.

«E allora cosa proponi?» chiese cauta.

«Niente di speciale», scrollò le spalle. «Solo che ci penso.»

Una settimana dopo notò Marco entrare più spesso nel suo ufficio. Allinizio con il pretesto di cercare documenti, poi semplicemente per farci un salto. Si fermava al muro, come se volesse misurare qualcosa con gli occhi.

«Bella stanza», commentò una sera. «Luminosa, spaziosa.»

Isabella alzò lo sguardo dalla carta. Cera qualcosa di nuovo nel tono, quasi una valutazione.

«Sì, mi piace lavorare qui», rispose.

«Sai», disse Marco avvicinandosi alla finestra, «forse dovresti pensare di spostare il tuo spazio di lavoro nella camera da letto. Potresti allestirlo anche lì.»

Un nodo si strinse dentro di lei. Pose la penna e fissò Marco.

«Perché dovrei spostare? Qui è comodo.»

«Non lo so», balbettò. «Mi è venuto in mente.»

Ma il pensiero di cambiare non la lasciava. Notò Marco scandire la stanza, riorganizzare mentalmente i mobili, indugiare sulla soglia come se già vedesse qualcosa di diverso.

«Ascolta», disse qualche giorno dopo, «non è ora di liberare un po la tua stanza? Per ogni evenienza.»

La domanda suonò come una decisione già presa. Isabella sussultò.

«Perché dovrei liberare la stanza?», chiese più dura di quanto volesse.

«Solo una riflessione», esitò Marco. «Pensavo potremmo avere una stanza per gli ospiti.»

Allora capì. Tutte quelle chiacchierate sui genitori, tutti quei commenti casuali sullufficio, erano parte di un unico piano. Un piano in cui la sua opinione non veniva nemmeno considerata.

«Marco», disse lentamente, «dimmi la verità. Che succede?»

Lui si voltò verso la finestra, evitando lo sguardo. Il silenzio si allungò. Isabella comprese: qualcosa era già stato deciso, senza di lei.

«Marco», insistette con fermezza, «che cosa sta succedendo?»

Il marito si girò, il volto impallidito dallimbarazzo, ma negli occhi brillò una flebile determinazione.

«Beh, i miei genitori sono davvero stanchi del caos cittadino», iniziò cautamente. «Hanno bisogno di tranquillità, capisci?»

Isabella si alzò dalla scrivania. Lansia le gonfiò il petto, una sensazione che aveva cercato di ignorare per settimane.

«E tu cosa suggerisci?», chiese, pur sapendo già la risposta.

«Siamo una famiglia», rispose Marco, come se quella frase spiegasse tutto. «Abbiamo una stanza in più.»

Una stanza in più. Il suo ufficio, il suo rifugio, il suo spazio una stanza in più. Isabella strinse i pugni.

«Questa non è una stanza in più», disse lentamente. «È il mio ufficio.»

«Sì, ma potresti lavorare nella camera da letto», sbuffò lui. «I miei genitori non hanno altrove dove andare.»

La frase sembrava già provata. Isabella capì: quella conversazione non era la prima. Solo che non laveva mai avuto con lei.

«Marco, questa è la mia casa», esclamò secca. «E non ho mai accettato che i tuoi genitori si trasferiscano qui.»

«Ma non ti dispiace, vero?», ribatté con una punta di irritazione. «Siamo una famiglia, no?»

Ancora quella scusa. Famiglia. Come se appartenere a una famiglia cancellasse il suo diritto di parola. Isabella si avvicinò alla finestra, cercando di calmarsi.

«E se mi dispiacesse?», chiese senza voltarsi.

«Non essere egoista», lanciò Marco. «Si tratta di persone anziane.»

Egoista. Per non voler rinunciare al suo spazio di lavoro. Per ritenere che quelle decisioni dovessero essere discusse. Isabella lo fissò.

«Egoista?», ripeté. «Per volere che la mia opinione venga considerata?»

«Dai», fece Marco, facendo un gesto con la mano. «È un dovere familiare. Non possiamo abbandonarli.»

Dovere familiare. Unaltra frase elegante per farla tacere. Ma Isabella non avrebbe più taciuto.

«E il mio dovere verso me stessa?», chiese.

«Smettila di drammatizzare», la interruppe. «Non è un grosso problema, basta spostare il computer in unaltra stanza.»

Non è un grosso problema. Tutti quegli anni di lavoro per creare lufficio perfetto, ora considerati niente. Isabella vide Marco per la prima volta davvero.

«Quando hai deciso tutto?», sussurrò.

«Non ho deciso nulla», iniziò a difendersi. «Stavo solo pensando a delle opzioni.»

«Stai mentendo», lo accusò. «Hai già parlato con i tuoi genitori, vero?»

Il silenzio parlò più di mille parole. Isabella tornò a sedersi, cercando di capire cosa stesse succedendo.

«Quindi avete consultato tutti tranne me», affermò.

«Basta», esplose Marco. «Che differenza fa a chi hai parlato?»

Che differenza. La sua opinione, il suo consenso, la sua casa che differenza? Isabella realizzò che Marco si comportava come un proprietario, ignorando i suoi diritti.

Il mattino seguente Marco entrò in cucina con laria di chi aveva già preso una decisione. Isabella era al tavolo con una tazza di caffè, pronta a proseguire la discussione di ieri.

«Ascolta», iniziò senza preamboli, «i miei genitori hanno deciso di trasferirsi.»

Isabella alzò lo sguardo. Non cera spazio per il dialogo.

«Libera subito una stanza in casa, così i miei genitori potranno viverci», aggiunse, come a dare un ordine.

Per Isabella fu una rivelazione. Non lavevano nemmeno consultata. Marco non solo non chiedeva, ma la escludeva dalla decisione.

La tazza tremò tra le mani. Dentro di lei tutto si ribaltò, rendendosi conto dellentità del tradimento. Marco aspettava una reazione, come se comandasse dei servi.

«Sei serio?», disse lentamente. «Hai deciso da solo per me? Ieri ho detto chiaramente che sono contro!»

«Calmati», sbuffò lui. «È logico. Dove altro potrebbero andare?»

Isabella posò la tazza e si alzò. Le mani tremavano per la rabbia accumulata.

«Marco, mi hai tradita», dichiarò con franchezza. «Hai messo gli interessi dei tuoi genitori sopra il nostro matrimonio.»

«Non drammatizzare», mormorò. «È famiglia.»

«E io? Un estraneo?», la sua voce si fece più dura. «Hai violato i miei confini e ignorato la mia voce nella mia stessa casa!»

Marco si girò, evidentemente sorpreso dalla reazione. Per anni aveva accettato le sue decisioni, ma ora qualcosa si era rotto.

«Mi tratti come una domestica», continuò. «Hai deciso che dovevo subire in silenzio.»

«Basta isteria», sbottò il marito, irritato. «Non è una cosa grave.»

Non è una cosa grave. La sua opinione era stata ignorata, il suo spazio sottratto eppure lui lo trattava come niente. Isabella si avvicinò.

«Rifiuto di cedere la mia stanza», affermò con decisione. «E di accogliere i tuoi genitori senza che nessuno li abbia invitati.»

«Come osi?», esplose Marco. «Sono i miei genitori!»

«E questa è la mia casa!», gridò. «Non vivrò più con un uomo che mi considera un oggetto!»

Marco fece un passo indietro, vedendo per la prima volta la furia di Isabella.

«Non capisci», iniziò confuso. «I miei genitori contano su di noi.»

«E tu non capisci me», interruppe. «Dieci anni e ancora non comprendi che non sono un giocattolo nelle tue mani.»

Camminò verso la cucina, raccogliendo i pensieri. Le parole, accumulate per anni, esplosero finalmente.

«Sai una cosa, Marco?», disse, voltandosi. «Esci di casa.»

«Cosa?», rimase senza parole. «Di cosa parli?»

«Non voglio più vivere con un uomo che non mi considera», affermò con calma.

Marco aprì bocca, ma nessuna parola uscì. Non si aspettava quella svolta.

«Questa è la nostra casa», balbettò.

«Legalmente la casa è mia», lo ricordò freddamente. «Ho tutto il diritto di cacciarti fuori.»

Marco rimase immobile, scioccato dal confine invisibile che aveva superato.

«Parliamo con calma», tentò. «Troviamo un accordo.»

«Troppo tardi», lo interruppe. « Laccordo sarebbe dovuto avvenire prima che tu decidessi.»

Marco cercò di opporsi, ma la determinazione negli occhi di Isabella lo bloccò. Non era più la moglie remissiva che aveva fatto concessioni per anni.

«Fai le valigie», disse con serenità.

Una settimana dopo Isabella era di nuovo nella sua stanza di lavoro, godendo del silenzio. La casa sembrava più grande senza la presenza di estranei. Lordine che tanto amava era tornato.

Non provò rimpianto. Dentro di lei si era sistemata la certezza di aver fatto la cosa giusta. Per la prima volta dopo tanti anni aveva difeso i propri limiti e il proprio rispetto.

Il telefono squillò. Il numero sul display era quello di Marco. Isabella rifiutò la chiamata e tornò a lavorare. Lamore e la famiglia non possono esistere senza rispetto; nessun debito verso i parenti giustifica il calpestare chi sta accanto.

Aveva capito, finalmente: la dignità personale è il pilastro su cui costruire ogni rapporto.

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