Lo so che sono i miei figli,” disse senza alzare lo sguardo. “Ma… non posso spiegare perché, tra noi non c’è alcun legame.

**Diario Personale**

Lo so che sono i miei figli, ha mormorato senza alzare gli occhi. Ma non riesco a spiegarlo, tra noi non cè alcun legame.

Guarda che bella che è! ho esclamato, stringendo a me il corpicino caldo della nostra bambina appena nata. Elisabetta riposava avvolta in una morbida copertina, raggomitolata come un piccolo batuffolo di vita, e respirava piano. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. In quel momento, il mondo per me si era ridotto a un solo viso, a un solo respiro, a un solo pensiero: «È mia. Finalmente è qui».

Accanto a me cera Alessandro. Guardava la bambina, ma nel suo sguardo cera una strana mescolanza di tenerezza e qualcosaltro. Qualcosa di indefinibile, quasi una paura. Allungò una mano e sfiorò con un dito la guancia della piccola.

Somiglia a te, ha sussurrato, ma nella sua voce mancava quellentusiasmo che mi aspettavo. Non cera la gioia che avrebbe dovuto traboccare. Allora non ci feci caso. Va bene, somiglia a me, e allora? Limportante era che la nostra famiglia si fosse allargata, che la bambina fosse sana e che noi fossimo finalmente genitori.

Ma gli anni passarono, e quando nacque la seconda figliaMartinacominciai a notare ciò che prima non volevo vedere. Entrambe le bambine erano incredibilmente simili tra loro. Quegli occhi grandi e castani, il nasino delicato, la fronte alta, i capelli scuri e folti sembravano usciti da un ritratto di mio padre. Neanche una traccia di Alessandro in loro. Niente dei suoi occhi azzurri, delle fossette sulle guance, nemmeno quel suo modo caratteristico di sorridere. E questo diventò un problema. Serio e doloroso.

Ero seduta al tavolo della cucina, mescolando meccanicamente un tè ormai freddo. Alle mie spalle sentivo il respiro tranquillo delle bambine addormentate, mentre di fronte a me, con unespressione indecifrabile, cera mia suoceraValentina. Era passata a salutare, come diceva sempre. Ma sapevo che quelle visite non erano mai casuali. Soprattutto negli ultimi mesi, tra noi si erano accumulate incomprensioni, silenzi e una freddezza sempre più palpabile.

Vittoria, ha cominciato, scegliendo le parole con cura, come se temesse di ferirmi, le bambine sono bellissime, certo. Ma sei sicura che siano di Sandro? Assomigliano così tanto a tuo padre. Sono identiche a lui. Non trovi strano?

Il cucchiaino mi sfuggì di mano e tintinnò contro la tazza. Rimasi immobile. Quelle parole le avevo già sentitein battute, allusioni, sussurri. Ma da lei, dalla donna che mi chiamava figlia, suonavano ancora più crude. Come un pugno nello stomaco.

Valentina, ma che sta dicendo? la mia voce tremava. Certo che sono di Alessandro! Lo sa bene! Le abbiamo desiderate per anni, le ho partorite io, lui stesso le ha portate a casa dallospedale! Come può dubitarne?

Si strinse nelle spalle, come per dire: Chi lo sa?. E in quel gesto cera tutta la sua convinzione che il dubbio avesse diritto di esistere. Dentro di me sentivo lamarezza stringermi la gola, ma anche unansia più profonda. Perché il peggio non erano quelle parole. Il peggio era che anche mio marito si stava allontanando dalle nostre figlie.

Sandro, perché non sei andato a prendere Elisabetta allasilo? ho chiesto quando è rientrato a notte fonda. La piccola dormiva già, Martina si era addormentata sul divano. Io, esausta dopo un doppio turno di lavoro, le faccende di casa e le preoccupazioni, reggevo a malapena la stanchezza.

Mi è scappato, scusa, ha risposto con indifferenza, appoggiando la giacca sulla sedia senza neanche guardarmi. Avevo da fare.

Sei sempre occupato, ho sbottato. Ma quando passi del tempo con le bambine? Quando hai giocato con Martina lultima volta? O almeno letto una storia a Elisabetta?

È rimasto in silenzio. Un silenzio pesante, che alla fine si è rotto con la sua voce, bassa e piena di fatica:

Non mi viene naturale, Vittoria. Non so perché. Loro mi sembrano estranee. Ci provo, mi sforzo, ma non le sento mie.

Le lacrime mi salivano in gola. Come poteva dire una cosa simile delle sue figlie? Di quelle stesse bambine che avevamo tanto atteso? A un certo punto, però, ho capito che era sincero. Alessandro aveva davvero desiderato una figlia che gli somigliasse. Si era immaginato a giocarci, a esserne orgoglioso quando avrebbe riconosciuto in lei i suoi tratti. Voleva vedersi in loro. Invece, aveva due bambine che ricordavano mio padre. Come se le avessi fatte da sola.

Ho cominciato a documentarmi, a leggere di genetica, di ereditarietà, di geni dominanti e recessivi. Scoprii che può succedere. A volte i figli assomigliano più ai nonni che ai genitori. Mio padre aveva tratti molto marcatiocchi castani, fronte alta, capelli scuried entrambe le mie figlie li avevano ereditati. Ma come spiegarlo ad Alessandro e alla sua famiglia, se ormai avevano già tratto le loro conclusioni?

Ho proposto il test del DNA. Non perché avessi dubbi, ma per chiudere la questione una volta per tutte. Lui ha rifiutato.

So che sono miei, ha detto fissando il pavimento. Solo che non so spiegarlo. Non sento un legame con loro.

Ma ci hai provato? ho quasi urlato. Hai provato a stare con loro, a giocare, a parlare, a essere un padre? O aspetti che diventino tue per magia?

È rimasto in silenzio. E in quel silenzio ho sentito la nostra famiglia sgretolarsi, ho sentito il vuoto allargarsi tra noi.

Con i suoi parenti era anche peggio. Mia suocera e mia cognata si comportavano come se Elisabetta e Martina non fossero della loro famiglia. Venivano di rado, e quando lo facevano, non facevano che sottolineare quanto non somigliassero a Sandro. Una volta, mia cognata Caterina, ridendo, mi ha lanciato:

Vittoria, ma sei sicura di non averle fatte con tuo nonno? e ha riso, come se fosse uno scherzo divertente.

Non ce lho fatta più.

Caterina, non è più uno scherzo. Queste sono le mie figlie, e sono di tuo fratello. Se non vi piacciono, potete anche non venire.

Si è offesa, certo. Ma che altro potevo fare? Ero io a occuparmi delle bambine, mentre Sandro non sentiva il legame, e la sua famiglia non faceva che peggiorare le cose. I miei genitori vivevano lontani, e ormai erano anziani. Mi sentivo sola come mai prima.

Così, una sera, quando le bambine erano già a letto, ho deciso di affrontare la cosa. Sapevo che non potevamo andare avanti così. O trovavamo una soluzione, o la nostra famiglia sarebbe finita.

Sandro, ho cominciato, cercando di restare calma, so che sei turbato. Anchio sognavo una figlia che ti somigliasse. Ma queste sono le nostre bambine. Non è colpa loro se hanno preso i miei geni. E non è colpa mia. Mi fa male vederti allontanarti da loro.

È rimasto a lungo in silenzio, poi ha sospirato profondamente.

Mi odio per questo. Ma ogni volta che le guardo, vedo tuo padre. E mi sento fuori posto.

Gli ho preso la mano.

Non sei fuori posto.

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