Lo so che sono miei figli,” disse lui senza alzare gli occhi. “Ma… non riesco a spiegare perché, tra noi non c’è alcun legame.

“Lo so che sono i miei figli,” disse lui, senza alzare gli occhi. “Ma… non riesco a spiegarlo, non sento alcun legame con loro.”

“Guarda comè bella!” esclamai, stringendo il corpicino caldo della nostra neonata. Angelina riposava avvolta in una copertina morbidissima, un batuffolo di vita che russava piano. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. In quel momento, il mondo si era ridotto a un solo visino, un respiro, un pensiero: “È mia. Ce labbiamo.”

Accanto a me cera Alessandro. Guardava la piccola, ma nel suo sguardo cera una strana mescolanza di tenerezza e… qualcosaltro. Qualcosa di indefinito, quasi spaventato. Allungò una mano e sfiorò con un dito la guancia della bimba.

“Somiglia a te,” sussurrò. Ma nella sua voce mancava lesultanza che mi aspettavo. Niente di quella gioia traboccante che avrebbe dovuto esserci. Allora non ci feci caso. E va bene, somiglia a me, e allora? Limportante era che la nostra famiglia si era allargata, che la piccola stava bene e che eravamo finalmente genitori.

Ma gli anni passarono, e quando nacque la seconda figliaCarlottainiziai a notare ciò che prima mi rifiutavo di vedere. Le due sorelline erano incredibilmente simili: grandi occhi castani, nasino perfetto, fronte alta, capelli scuri e folti… sembravano ritratte dallo stesso quadro di mio padre. Non una sola caratteristica di Alessandro: neri dei suoi occhi azzurri, niente fossette sulle guance, nemmeno quellespressione tipica che aveva da bambino. E questo divenne un problema. Grave e doloroso.

Ero seduta al tavolo della cucina, mescolando meccanicamente un tè ormai freddo. Dietro di me, il respiro regolare delle bambine addormentate; di fronte, con unespressione indecifrabile, mia suocera, Valeria. Era “passata a dare unocchiata”, come diceva sempre. Ma sapevo che quelle visite non erano mai casuali. Specie negli ultimi mesi, tra noi si erano accumulate reticenze, silenzi e un gelido disagio.

“Beatrice,” iniziò lei, scegliendo le parole con cautela, come se temesse di ferire, “le bambine sono bellissime. Ma… sei sicura che siano di Alessandro? Somigliano così tanto a tuo padre. Due gocce dacqua, è incredibile, no?”

Il cucchiaino tintinnò contro la tazza. Immobile. Quelle parole le avevo già sentitein battute, allusioni, bisbigli. Ma da lei, da una donna che mi chiamava “figlia”, suonavano ancora più crude. Come un pugno allo stomaco.

“Valeria, cosa stai dicendo?” La mia voce tremava. “Certo che sono di Ale! Lo sai bene! Le abbiamo aspettate per anni, io le ho partorite, lui le ha prese in ospedale! Come puoi dubitarne?”

Lei si strinse nelle spalle, come a dire: “Chi lo sa?” E in quel gesto cera tutta la sua convinzione che il dubbio fosse lecito. Sentivo lamarezza stringermi il cuore, ma più ancora lansia. Perché il peggio non erano quelle parole. Il peggio era che anche mio marito si stava allontanando dalle nostre figlie.

“Ale, perché non sei andato a prendere Angelina allasilo?” chiesi quando rientrò a casa tardi, quasi allalba. Angelina dormiva già, Carlotta sonnecchiava sul divano. Io, stremata dopo un doppio turno e i soliti pensiri, facevo fatica a reggermi in piedi.

“Mi sono dimenticato, scusa,” buttò giù la giacca sulla sedia senza neanche guardarmi. “Avevo da fare.”

“Sei sempre occupato,” sbottai. “Quando passi del tempo con loro? Quandè lultima volta che hai giocato con Carlotta? O letto una storia ad Angelina?”

Silenzio. Un silenzio pesante, rotto infine dalla sua voce, bassa e greve:

“Non mi sento attratto da loro, Bea. Non so perché. Mi sembrano… estranee. Ci provo, ma non le sento mie.”

Le lacrime mi salirono in gola. Come poteva dire così delle sue figlie? Di quelle bambine che avevamo desiderato per anni? Ma poi capii: era sincero. Alessandro aveva sognato una figlia che gli somigliasse, con la quale giocare, di cui essere fiero. Voleva vedersi in lei. Invece, due bimbe che sembravano il ritratto di mio padre. Come se le avessi fatte da sola.

Mi misi a cercare su internet: genetica, dominanza dei tratti, eredità. Scoprii che può succedere. A volte un bambino assomiglia più ai nonni che ai genitori. Mio padre aveva tratti fortissimiocchi castani, capelli scurie le mie figlie li avevano ereditati. Ma come spiegarlo ad Alessandro e alla sua famiglia, se ormai si erano fatti unidea?

Proposi un test del DNA. Non perché dubitassi, ma per chiudere la questione. Lui rifiutò.

“So che sono mie,” disse, fissando il pavimento. “Solo… non sento un legame.”

“Ma ci hai provato?” quasi gridai. “A stare con loro, giocare, esserci? O aspetti che il legame arrivi da solo?”

Di nuovo silenzio. E in quel silenzio sentivo la nostra famiglia sfaldarsi, il baratro tra noi allargarsi.

Con i parenti di lui era anche peggio. Valeria e sua sorella Clara si comportavano come se Angelina e Carlotta non fossero sangue loro. Venivano di rado, e quando lo facevano, commentavano quanto le bimbe “non fossero per niente Ale”. Una volta Clara, ridacchiando, mi disse:

“Bea, sei sicura di non averle fatte con tuo nonno?” e rise come se fosse uno scherzo.

Non ce la feci più:

“Clara, non è più uno scherzo. Sono mie figlie, e sono di tuo fratello. Se non ti va, non venire.”

Si offese, ovviamente. Ma cosa potevo fare? Ero io a crescere due bambine mentre Alessandro “non sentiva un legame”, e la sua famiglia non faceva che aggrav

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Lo so che sono miei figli,” disse lui senza alzare gli occhi. “Ma… non riesco a spiegare perché, tra noi non c’è alcun legame.