L’ombra del calcolo
Fin dal primo incontro tra Ginevra e sua suocera, Beatrice Fiorentini, un gelo scese tra loro. Come un muro invisibile che divideva Ginevra dal calore che sperava di trovare nella nuova famiglia. Beatrice la osservava come un’ospite indesiderata, intrusa nel loro mondo perfetto. Nella sua ampia casa alla periferia di una cittadina affacciata sul mare, tutto parlava di agi: pavimenti di marmo, quadri incorniciati d’oro, lampadari di cristallo. Ma dietro quel lustro si nascondeva il vuoto—freddo, calcolato, come il vento di mare a gennaio.
Ginevra cercava di evitare gli incontri. Suo marito, Raffaele, la incoraggiava a migliorare i rapporti, sostenendo che la madre era solo “lenta ad abituarsi alle persone”. Ma ogni visita era una prova. Le conversazioni scivolavano sempre sui soldi: quanto costava la ristrutturazione, come investire il capitale, chi doveva cosa a chi. Per Beatrice Fiorentini, ogni cosa aveva un prezzo, persino i legami di sangue. Ginevra si sentiva una merce valutata, ma mai accettata.
Passarono anni. Una sera tardi squillò il telefono. La voce di Beatrice, di solito tagliente e sicura, tremava: era gravemente malata. Chiedeva l’aiuto di Ginevra. Lei rimase immobile, stringendo l’apparecchio. Le tornarono alla mente anni di indifferenza, commenti acidi, sguardi di superiorità. Andare o no? Il cuore le si spezzava tra rancore e dovere. Alla fine, vinse il dovere. Preparò una borsa e partì per la casa sul mare.
Ginevra trovò Beatrice nella camera da letto. Era distesa, avvolta in una coperta leggera, il volto scavato, gli occhi spenti. Si lamentava del dolore, della debolezza, della solitudine. Ginevra la fissò, chiedendosi se quella fragilità fosse autentica o un’ennesima manipolazione. Ma i dubbi svanirono quando Beatrice le afferrò la mano, supplicandola di non andarsene. Chiamò i medici, organizzò il ricovero, passò ore al suo capezzale, parlando con le infermiere.
La cura durò settimane. Beatrice si riprendeva lentamente. Quando fu dimessa, Ginevra l’aiutò a tornare a casa, pulì, cucinò. Aspettava almeno una parola di gratitudine, un segno che i suoi sforzi non fossero stati vani. Ma invece, seduta nella sua poltrona di pelle, Beatrice chiese con freddezza:
—Quanto ti devo per tutto questo?
Ginevra si bloccò, sentendo qualcosa spezzarsi dentro.
—Come può dire una cosa simile? L’ho aiutata perché… perché era giusto! — la sua voce tremava di rabbia.
—Non fare la ingenua, — sorrise Beatrice, ma il sorriso era vuoto come le sue parole. — Pago sempre per i servizi. È il mio modo di ringraziare. I soldi sono il miglior modo per dimostrare stima.
—Crede davvero che tutto si possa comprare? — Ginevra serrò i pugni. — Se fosse una vera madre, Raffaele si prenderebbe cura di lei. Non avrebbe dovuto supplicarmi di nascosto.
Beatrice aggrottò la fronte. Le labbra le tremarono, ma non rispose. Nei suoi occhi lampeggiò qualcosa—forse offesa, forse stupore. «Perché mi odia così? — pensò la suocera. — Io vivo solo secondo le mie regole. È forse un crimine?»
Ginevra se ne andò senza aggiungere altro. Il giorno dopo, un bonifico arrivò sul suo conto. La notifica della banca le bruciò gli occhi. La somma era generosa, ma per lei fu come uno schiaffo. Non restituì i soldi—non per avidità, ma per stanchezza. Discutere con Beatrice era come sbattere contro un muro di pietra.
Raffaele non seppe mai di quella storia. Continuò a vedere in sua madre una donna dal cuore buono, incapace di bassezze. Ginevra non volle spezzare le sue illusioni. Tacque, nascondendo la verità nel profondo, sapendo che a volte il silenzio vale più di ogni confessione. Ma ogni volta che guardava il marito, sentiva crescere tra loro un’ombra—l’ombra del calcolo, proiettata da sua madre.