Luce di latta
Quando Vittorio tornò nella sua città, nascosta tra le colline della Toscana, nessuno seppe spiegare perché lo avesse fatto. Nemmeno lui riusciva a dirlo. La mattina era grigia, con una pioggerellina che spariva subito nell’asfalto. Si alzò, preparò un caffè amaro, infilò nella borsa consunta una vecchia giacca di pelle che sapeva di umido e sale, un accendino Zippo regalatogli anni prima da Sandro, e un biglietto di sola andata. Lo aveva scelto a caso, come se una mano invisibile avesse guidato le sue dita.
La città lo accolse con odori di terra bagnata, ferro arrugginito, e ombre stanche sbucate dai palazzini scrostati. Tutto era quasi come quindici anni prima: solo i muri più sbiaditi, la ruggine più profonda, le insegne dei negozi che tremolavano al neon, come in un respiro soffocato. Ma soprattutto, era lui a essere cambiato. O forse era tornato più simile a chi era stato? Difficile crederlo.
Si chiamava Vittorio. Quando era partito, aveva sbattuto la porta con tale forza da far vibrare i vetri, infilando in fretta qualcosa nello zaino e strappando dall’album di famiglia una foto: sua madre che lo abbracciava, lui, un ragazzo dallo sguardo torvo, che guardava da un’altra parte, come se avesse già previsto tutto. Allora credeva di lasciare quel paesino non solo per scappare, ma per strapparsi di dosso una vecchia pelle, per trovare finalmente qualcosa di vero.
Ora la libertà non la sentiva più.
Alla stazione non c’era nessuno ad aspettarlo. E lui non se l’aspettava. Il treno si fermò con un sospiro stanco, la gente si disperse tra abbracci e taxi. Lui rimase lì, stringendo la borsa, fissando la panchina scrostata sotto l’insegna «Biglietteria». Tutto gli era dolorosamente familiare, fino a fargli fischiare le tempie.
Suo madre aveva avuto un ictus. Era a casa, immobile, gli occhi che seguivano le crepe sul soffitto. Aveva chiamato un paio di volte: rispondeva il padre, parole brevi, niente di più. Suo padre aveva una nuova famiglia, bambini piccoli che forse non sapevano nemmeno della sua esistenza.
Suo sorella, Cecilia, era scomparsa a Milano. Aveva mandato una cartolina con il Duomo e scritto: «Tutto bene». Nessuna firma. Lui aveva cercato di contattarla, ma senza risposta. Alla fine si era arreso. Stanco.
Affittò una stanza da zia Vera, quella che un tempo gli preparava panini con la porchetta, gli disinfettava i ginocchi sbuccati e raccontava di suo marito, morto di infarto dopo una vita passata in segheria. La sua casa era identica: muri scrostati, una coperta rattoppata sul divano, la tv coperta da un panno. Zia Vera, curva, profumata di erbe e sapone economico, lo guardò e scosse la testa.
«Allora, Vittò, tornato nella nostra buca? Non ti è piaciuto il mondo?» gli chiese, versandogli altro caffè in una tazza scheggiata.
Lui scrollò le spalle. «Dovevo. Solo… dovevo.»
Il quarto giorno andò ai capannoni abbandonati.
A sedici anni, lì dentro, lui e Sandro riparavano una vecchia Fiat Panda lasciata dal nonno. Sognavano di trasformarla in un fuoristrada e scappare al sud, verso il mare. Non ci arrivarono mai. Quell’anno Sandro finì in prigione: una rissa, una bottiglia, un morto. In paese bisbigliavano: «gli ragazzi è andata male», ma Vittorio sapeva che la fortuna era stata la sua, non la sua. Era lì, ma scappò. Voltò le spalle e se ne andò.
Poi, studi, lavoro, una vita che sembrava un vestito stretto, indossato solo perché non c’era altro. Una vita grigia, come un film vecchio che si continua a guardare perché ormai è troppo tardi per spegnerlo. E ora era di nuovo lì, tra ferro arrugginito, odore d’olio e macchine abbandonate, come se le radici che credeva marcite fossero ancora vive.
Disse che Sandro era uscito da poco. Lo trovò in un’officina fatiscente alla periferia della città, dove aggiustava vecchie Fiat, macchine logore come lui. La sera beveva, fissando il vetro sporco come se cercasse nelle ombre qualcosa del passato. Vittorio non sapeva cosa dire, ma ci andò. Doveva.
L’officina lo accolse con rumori di metallo, cigolii e tanfo di benzina. Sandro era accovacciato vicino a una ruota, con una chiave in mano. Alzò lo sguardo lentamente, come se cercasse nel suo volto il ragazzino che era stato.
«Da dove spunti? Dalla luna?»
«Quasi. Da Milano.»
«Com’è, la tua Milano?»
«Rumore. Freddo. Vuota.»
Sandro sbuffò, si alzò. Era più massiccio, con un tatuaggio sul collo e una cicatrice sopra il sopracciglio, come se la vita l’avesse marchiato per non perderlo.
«Te ne sei andato, allora.»
«Sì. Me ne sono andato.»
Il silenzio si appese come fumo. Poi Sandro sospirò.
«Vabbè. Andiamo a bere. Tanto quel pezzo non lo troviamo.»
Bevvero grappa pessima in tazze di latta, nel capannone. Fuori, il crepuscolo si addensava. Il silenzio era quasi quello di un tempo. Solo che allora tutto era ancora possibile.
«Perché sei tornato?» chiese Sandro.
Vittorio ci pensò su. Poi rispose:
«A volte si vuole tornare dove tutto è andato storto.»
Sandro lo fissò, strizzando gli occhi.
«Qui è tutto già sepolto. Non c’è via d’uscita.»
«Lo so.»
La mattina dopo, Vittorio uscì presto. Andò alla vecchia scuola. Le porte erano chiuse, le finestre impolverate, ma in una di loro vide il suo riflesso: stanco, invecchiato, estraneo. Poggiò la fronte sul vetro freddo e chiuse gli occhi.
Sulla via del ritorno, comprò della vernice. Blu scuro. E sul muro del capannone, sotto una luce fioca, scrisse: «C’ERA».
Poi prese un coltello e ritagliò nella lamiera un varco a forma di mezzaluna, come a rubare un pezzo di cielo dalla memoria. Quando il lampione si accese, la luce filtrò attraverso il taglio, riempiendo il capannone di un bagliore freddo, di latta.
Ora, di notte, là dentro c’era luce. Dura, sfilacciata, imperfetta. Ma viva, come un frammento d’infanzia che all’improvviso respirava ancora.
Partì tre giorni dopo. In treno faceva caldo, ma Vittorio guardò fuori dal finestrino e, per la prima volta da anni, sentì di respirare. Non solo con i polmoni. Ma anche con il cuore.