L’Ultimo Incontro nel Parco d’Autunno

Caro diario,

Oggi ho rivissuto lultima passeggiata dautunno nel Parco Sempione, lo stesso dove tutto è iniziato venti anni fa. Non è stato un appuntamento programmato, ma il capriccio di un vento di ottobre che sembrava girare per Milano, sfogliando le pagine di vite dimenticate.

Camminavo lungo lallora lastricata con le luci dorate, con un biglietto del treno stropicciato nella tasca del cappotto. Partivo quella sera, per sempre, e quel giro era il mio silenzioso addio alla città che aveva custodito la mia estate, la mia prima giovinezza.

Su una panchina, quella con langolo di cemento scheggiato e le misteriose iniziali M.+V. incise sul retro, sedeva lei, avvolta in un cappotto beige, a osservare lacqua dove le anatre chiedevano pane ai passanti.

Mi fermai; il cuore fece quel movimento antico, più unoscillazione che un battito, come un pendolo che riavvolge il tempo. Lavrei riconosciuta in mille, non per i lineamenti di quella figura elegante e un po stanca, ma per linclinazione della testa, per il modo in cui teneva le mani incrociate sulle ginocchia.

Ginevra? sussurrai, la voce rauca e stranamente distante.

Si voltò, non di colpo, non spaventata, ma come se avesse atteso il mio richiamo. I suoi occhi grigioverdi si spalancarono.

Edoardo? Dio Edoardo.

Mi avvicinai e mi sedetti accanto, mantenendo una distanza che potrebbe contenere due decenni di silenzi. Laria odorava di foglie umide, fumo di caffè e profumi costosi, ma non più quegli aromi dolci e ribelli delladolescenza.

Che ci fai qui? domandammo quasi allunisono, ridendo imbarazzati.

Scoprimmo che lei era uscita a fare una passeggiata dopo una lezione alluniversità vicina, io ero lì per salutare.

Un attimo di tregua, confortevole e gravoso al tempo stesso.

Ti ricordi, iniziò lei guardando lacqua, di quando ci siamo incontrati per la prima volta? Tu sul tuo skateboard quasi mi calpestavi.

Non quasi, ti ho davvero urtata, risposi con un sorriso. Sei caduta in una pozzanghera, e invece di scusarmi ho iniziato a urlare che avevi rotto il mio skateboard.

Io ho pianto non per le calze rovinate, ma perché eri così incivile, rimase Ginevra scuotendo la testa, e nei suoi occhi apparvero rugheluminosi come i più bei gioielli. Il giorno dopo mi sei comparso con una scatola di cioccolatini Nocciolina.

E noi siamo rimasti su quella panchina fino al tramonto, concluse Edoardo.

Allora la memoria si accese come un vecchio proiettore, proiettando sullo schermo ricordi un po sbiaditi ma vividi. Ricordo loro a fare grigliate con gli amici, soffocati dal fumo delle salsicce, e Ginevra, coperta di carbone, che mi dava da mangiare con una forchetta mentre io fingevo di mordere il dito. Ricordo le corse sotto una pioggia torrida dopo la prima proiezione di un film, fradici e urlanti di gioia. Ricordo il piccolo anello dargento con uno zaffiro che le regalai per il compleanno, comprato con i miei guadagni estivi, e le sue lacrime che si posavano sulle labbra.

Parlavamo di tutto ciò ora, le parole fluivano leggere come se non fossero state sepolte per anni sotto la polvere della routine e delle delusioni.

Ti ricordi quando litigammo per luniversità? chiese Ginevra. Tu volevi andare a Torino, io non potevo partire per colpa di mia madre.

Ero un idiota, mormorai. Dicevo che se ami, andresti anche fino al confine del mondo.

Io dicevo che se ami, capirai, sospirò. Eravamo così giovani, convinti che lamore fosse una forza fantastica che risolve tutto. Ma si è rivelato fragile, come il primo ghiaccio su quel laghetto.

Il silenzio tornò. Il vento staccò un altro turbinio di foglie dal platano, e le foglie girarono in un lento valzer daddio.

Come va la tua vita? chiesi, già conoscendo la risposta. Bene non bastava a descrivere la loro vita. Lei aveva una famiglia, un lavoro; io gestivo la mia azienda in una città vicina, con le mie preoccupazioni. Tutto era ordinario, ma non bene nel senso che i venti di quelletà attribuivano a quella parola.

Sì, rispose lei, leggendo negli occhi lo stesso tutto bene. Tutto bene.

Strappai il biglietto dalla tasca, quellultimo pezzo di carta che mi tagliava dal parco, da Milano, da lei.

Sai, dissi allungando la mano, ricordo ancora lodore dei tuoi capelli. Non di profumi, ma di semplice chioma, una miscela di shampoo al melo e sole.

Ginevra mi guardò, gli occhi scintillanti.

E io ricordo il tuo fischio. Un fischio speciale, con due dita. Lo facevi avvicinandoti al mio ingresso, e io correvo al balcone come una pazza.

Provai a fischiare ora, ma venne un suono flebile, incerto. Labilità era svanita. Entrambi sorridemmo, con una tristezza dolce e penetrante.

Era ora di andare. Ci alzammo dalla panchina nello stesso momento, quasi per abitudine.

Ciao, Edoardo, disse.

Ciao, Ginevra.

Non ci abbracciammo, né ci baciammo sulla guancia. Ci separammo lungo il viale, come venti anni fa, quando sapevamo che avremmo rivisto laltro il giorno dopo. Ora, più non era così.

Arrivai alluscita del parco, mi girai. Lei era già lontana, una sagoma slanciata che svaniva nel crepuscolo. Estrassi il biglietto, lo guardai, poi lo strappai in più pezzi e lo gettai nella spazzatura.

Non partivo con quel peso. Lo lasciavo dove doveva stare. Poi proseguii verso il freddo della sera, portando soltanto il dolce profumo di shampoo al melo.

Uscendo dal parco, il frastuono della città mi avvolse il rombo delle auto, i clacson, i passi frettolosi. Laria puzzava di benzina e di kebab dal chiosco allangolo. Infilarono il cappotto, mi diressi verso la stazione, anche se il treno non mi aspettava più.

Le strade familiari erano ora pagine di quel libro che avevamo scritto insieme. Il cinema Cinema Aurora, dove ci eravamo baciati sotto la pioggia improvvisa. Il vecchio caffè dove Ginevra aveva assaggiato il primo caffè espresso, facendo una smorfia: Sa di terra amara. Ora la vetrina mostrava il logo di una grande banca.

Pensai di tornare, di trovarla, di dire dire cosa? Che tutti quegli anni avevo cercato il suo riflesso in volti estranei? Che nessun successo profuma come il suo shampoo al melo? Sarebbe stato un pazzo pensiero. Eravamo adulti con impegni, agende, vite che non erano più destinate luna allaltra.

Nel frattempo Ginevra si sedette su unaltra panchina, poco più avanti. Guardava il vento far scivolare le ultime foglie secche sullacqua e rifletteva su quanto sia strana la vita. Due decenni, una vita costruita con un altro, un figlio, una dottorato, una routine tutto poteva svanire in dieci minuti di una conversazione casuale.

Ricordò il suo sguardo su di lei, quello fisso, un po sfidante, che una volta le togliava il respiro. Uno sguardo che non vedeva un professore stimato, ma la ragazzina sullo skateboard, fradicia e felicissima.

Sentì un improvviso desiderio di correre, di raggiungerlo, di chiedersi E se? Ma i suoi piedi non rispondevano. Erano abituati alla regolarità, alla prevedibilità. Sapeva dove era la casa, dove il marito probabilmente la stava aspettando, preoccupato per il suo ritardo.

Raccogliendo i pensieri, si alzò e tornò verso il suo dipartimento, dove lauto era parcheggiata. Camminò senza voltarsi indietro verso il laghetto, la panchina, i fantasmi della gioventù.

Io raggiunsi la stazione. Il grande tabellone mostrava rotte verso città dove nessuno mi aspettava. Mi avvicinai al bancone.

Dove vuole andare? chiese la commessa con voce stanca.

Guardai lei, poi le mie mani che poco prima stringevano il biglietto inutile.

Da nessuna parte, sussurrai. Sono già arrivato.

Mi voltai e uscii dalla stazione. Non sapevo cosa mi attendesse domani. Forse avrei trovato un lavoro, forse un piccolo appartamento con vista sul parco, forse solo altri giorni a respirare quellaria dautunno.

Non cercavo più lincontro. Quellincontro era già avvenuto. Mi aveva scosso, mi aveva ricordato chi ero davvero sotto gli strati di anni e contratti. Per la prima volta dopo tanto tempo non avevo fretta di andare altrove. Ero semplicemente Edoardo, un uomo che una volta amò Ginevra, e bastava.

Il passato non si può recuperare, ma si può smettere di fuggirgli. In quella fermata cera una strana libertà amara e curativa.

Camminai per le strade vuote della sera; la città non era più un museo dei miei rimpianti. I lampioni non erano più catene di luce sul passato, ma semplici fari verso il futuro. Sentii un leggero vuoto, come se nellanima si fosse fatto spazio per qualcosa di nuovo. Il passato, finalmente, mi lasciò andare non con lo sbattimento di una porta, ma con un sospiro silenzioso, quasi di sollievo. E in quel silenzio cominciò qualcosa di mio, reale.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

two × 1 =

L’Ultimo Incontro nel Parco d’Autunno