L’Uomo della Fotografia

Quando Ginevra compì trentanni, improvvisamente sentì che la sua vita era come una lunga pausa.

Di giorno lavorava in un piccolo studio informatico a Roma, controllava i testi sul sito, aggiustava le virgole altrui e scriveva brevi etichette per i pulsanti. La sera tornava nel suo monolocale al settimo piano di un palazzo di Trastevere, da cui si vedeva solo la parete grigia delledificio accanto e una stretta striscia di cielo. Condivideva la vita con Marco, programmatore nello stesso ufficio, ma la loro relazione da un anno era bloccata tra ci vediamo e qualcosa di più definito.

Si incontravano due o tre volte a settimana. A volte Marco restava da lei, a volte lei andava da lui, in un appartamento ordinato, quasi impersonale, con pareti bianche e una TV a muro. Le conversazioni si limitavano sempre più a progetti, serie TV e ai negozi più convenienti per la spesa. Quando si parlava del futuro, Marco scherzava o diceva che non è il momento di correre.

Ginevra annuiva, ma dentro sentiva serrarsi qualcosa. Non riusciva a dire esattamente cosa volesse. Da un lato la spaventava lidea del matrimonio e dei figli, di dover rinunciare a qualcosa. Dallaltro, quellincertezza prolungata la logorava.

Allinizio di aprile la madre la chiamò e le chiese di sistemare le cose vecchie della nonna. Lappartamento doveva essere affittato, alcuni mobili e stoviglie venduti. La nonna era morta in autunno e nessuno aveva ancora toccato il suo armadio e le sue mensole.

Sei la più ordinata di noi le disse la madre. Io lavoro fino a tardi, Zia Nina arriverà ad aiutare, ma non è brava a trasportare scatole. Vai a dare unocchiata a quello che si può buttare.

Ginevra accettò senza grande entusiasmo. Amava la nonna, ma negli ultimi anni questultima viveva in un suo mondo, confondeva i nomi, dimenticava chi era passato il giorno prima. I ricordi di lei erano legati più al profumo della marmellata e al fruscio dei giornali vecchi.

Sabato mattina partì per lappartamento della nonna, una palazzina di mattoni in un quartiere limitrofo. Lingresso puzzava di polvere e di qualcosa di antico. La porta si aprì con il consueto cigolio. Dentro cera ancora la stessa atmosfera autunnale: un tappeto logoro, un divano grigio coperto da una coperta, credenze con ante di vetro.

Zia Nina era già lì. Bassa, paffuta, con un camice blu scuro, stava al centro della stanza con una spugna in mano, ordinando libri e stoviglie.

Non buttare gli album fotografici disse subito. La mamma li custodiva.

Ginevra annuì e si mise a capo della mensola inferiore della credenza, dove cerano vecchie cartelle e scatole. La polvere le solleticava il naso, il vetro tremava appena quando estraeva pile di buste ingiallite.

Tra quaderni e cartoline trovò una piccola cornice di legno con una foto. Il vetro era leggermente opaco, ma i volti si distinguevano. La nonna, intorno ai trentanni, stava in un parco. I capelli raccolti, un vestito chiaro a fantasia. Accanto a lei cera un uomo in uniforme militare, senza berretto, capelli scuri e corti. Lui guardava verso il fotografo, mentre la nonna lo fissava. Cera qualcosa negli occhi della nonna che Ginevra non aveva mai notato in altre foto.

Girò la cornice. Sul retro, con inchiostro sbiadito, cera scritto: Lidia e Carlo. 1947. Sotto, lettere illeggibili, come se qualcuno avesse iniziato a scrivere e poi avesse smesso.

Zia Nina, chi è? chiese Ginevra, mostrando la cornice.

Zia Nina la guardò e per un attimo sembrò trattenere il respiro.

Oh, è vecchio disse frettolosamente, voltandosi. Metti con le altre.

Ma la nonna e quel Carlo. Non lho mai sentito nominare.

Fotografa con chiunque, sbuffò la zia. Dopo lo sistemiamo. Guarda negli album in basso, non confonderli con le riviste.

Il tono era troppo frettoloso. Ginevra sentì accendersi la curiosità. Guardò di nuovo il volto delluomo; non riconobbe nulla. Ma lo sguardo della nonna verso di lui la teneva incollata.

Il resto della giornata la trascorse con Zia Nina a smistare gli oggetti. Alla sera Ginevra portò a casa una scatola di foto e lettere, dicendo che le avrebbe sistemate. Zia Nina alzò le spalle.

Fai come credi. Non mi servono più.

Rientrata, posò la scatola sul tavolo e la osservò per un po. Marco le aveva scritto che non poteva venire, aveva una scadenza urgente. Lei rispose va bene e silenzió le notifiche.

Il rumore della carta riempì la stanza mentre sfogliava le foto. Cerano la nonna adolescente in uniforme scolastica, la madre piccola con un berretto di lana, una tavola da giardino con persone sconosciute. La foto con luomo in uniforme era appoggiata al muro.

Ginevra si rese conto di fissarla continuamente. Alla fine prese la cornice e la posò davanti a sé.

«Lidia e Carlo. 1947».

La famiglia aveva sempre detto che la nonna Lidia si era sposata con il nonno Vittorio alla fine degli anni 40. Parlavano poco della guerra, solo frasi generiche. Il nonno morì quando la madre aveva cinque anni. Non aveva mai sentito parlare di altri uomini nella vita di Lidia.

Fotografò la cornice con il cellulare per mostrarla alla madre, poi la ripose. Ma quella notte non riuscì a dormire; la mente girava domande mai poste.

Il giorno dopo andò a trovare la madre, che viveva a due fermate dalla metropolitana, in un bilocale con un balcone pieno di vasi di fiori.

Hai finito di sistemare? chiese la madre, servendo tè e biscotti. Nina si è lamentata?

Si è lamentata, ma è sopportabile rispose Ginevra, tirando fuori la foto. Mamma, la conosci?

La madre la guardò, strizzò gli occhi. Il suo volto cambiò un attimo, poi tornò al solito.

È tua nonna. Non la riconosci?

E luomo?

Che uomo? fingeva di guardare lo sfondo. Ah, quello. Non ricordo. Probabilmente un conoscente, a quel tempo tutti posavano.

Cè scritto Lidia e Carlo. Non ne hai mai parlato.

La madre pose la cornice sul tavolo e prese una tazza.

Sì, le cose del passato Lidia aveva una giovinezza, degli amici. Non ne parliamo più.

Ma dovevi sapere chi era? Ginevra insistette. Era in uniforme, nel settantasette. Forse un compagno di trincea?

E perché ti interessa? la madre alzò la voce. Luomo non cè più, e io non cè più. Che senso ha scavare nel passato?

Ginevra sentì unondata di ostinazione.

Solo per capire. Ho capito quanto poco so di Lidia. Quasi non ne parlava.

Allora non voleva, rispose la madre. Alcune cose è meglio lasciarle in pace.

Ginevra si alzò e andò in cucina a fare un altro tè. Il discorso era chiuso.

Tornata al suo appartamento, aprì la foto sul retro e ingrandì la scritta. Sotto Lidia e Carlo. 1947 cera un piccolo giugno. Niente più.

Nei giorni seguenti il lavoro procedeva normalmente, ma il pensiero delluomo in uniforme continuava a seguirla. Nei brevi intervalli correggeva testi e si ritrovava a fissare la foto sul cellulare, cercando di immaginare il suo carattere.

Marco la invitava più volte a uscire, ma trovava sempre una scusa: una riunione, un allenamento, una correzione urgente. Ginevra accettava di rimandare, sentendo crescere una stanchezza sempre più netta.

Una sera, mentre era ancora tra le scatole della nonna, ricordò una foto in cui Lidia era davanti a uninsegna Casa della cultura dei ferrovieri con la scritta Calabria, 1949. Decise di cercare informazioni sulla città, ora chiamata Calabria. Su un forum di storia locale trovò liste di caduti e dispersi. Pensò che Carlo, se militare, potesse comparire lì, ma non conosceva il cognome.

Il fine settimana chiamò Zia Nina.

Zia Nina, Lidia ha vissuto a Calabria dopo la guerra?

Sì, li hanno evacuati, sono rimasti finché non sono tornati. Che vuoi sapere?

Che ne sai di Carlo?

Ci fu una pausa.

Tu non smettere di parlarne, sospirò la zia. È una ferita. La guerra, la fame, le persone che si incrociano e si separano.

Ma sai qualcosa, vero?

Lo so, ma non voglio parlare. Non è una questione di segreti, è dolore. E a tua madre non piacerebbe che rianaliamo il passato.

Non voglio giudicare, voglio solo capire chi era la nonna, non solo unanziana che ricordo.

Un lungo silenzio, poi la zia propose:

Vieni a trovarmi domenica, sola, senza mamma. Parleremo.

La settimana volò tra lavoro meccanico e ricerche tra le lettere, in attesa della domenica. Giovedì Marco le propose una vacanza al mare.

Possiamo prendere un pacchetto lastminute, due settimane. Hai già chiesto permesso?

Sì, ma

E poi?

Non lo so.

Marco rimase in silenzio.

Poi arriverà lautunno, i progetti, il lavoro, la vita, concluse.

Ginevra sentì crescere dentro di sé unirritazione familiare.

Va bene, ne parleremo più tardi, disse, chiudendo la chiamata.

Domenica, Ginevra arrivò a casa di Zia Nina, una vecchia palazzina di mattoni vicino al parco. Laria profumava di cipolla fritta e di bucato. Sulle pareti cerano tappeti con motivi di cervi e foto di nipoti.

Entra, disse Zia Nina sistemando gli occhiali. Vuoi un tè?

Sedute al tavolo, la zia pose la tazza davanti a Ginevra.

Allora, vuoi sapere di Carlo, iniziò senza fronzoli. Ascolta, ma poi parla con tua madre con più cautela. È stata una sua esperienza.

Ginevra annuì, sentendo la bocca secca.

Lidia e lui si incontrarono a Calabria, in un ospedale militare. Carlo era tenente, ferito, rimasto in una base di comando. Lidia lo amava, rideva con lui, gli portava cioccolato quando il rifornimento era scarso. Io ero piccola, ma ricordo quel cioccolato.

Perché non è diventato il nonno?

Lo portarono via. Nel ’47 ci furono controlli, filtraggi. Aveva un fratello prigioniero, e fu arrestato. Lidia lo cercò per anni, poi le dissero di non insistere, altrimenti sarebbero venute a prenderla anche lei. Allora accettò Vittorio, un operaio dellacciaio, stabile, senza drammi.

La zia fece un sorso di tè, poi continuò.

La famiglia ha cercato di nascondere quella storia. Lidia tenne qualche lettera di Carlo in un cassetto lontano, e una foto lha messa in quella cornice.

Ginevra sentì un nodo in gola.

La mamma lo sapeva?

Lha scoperto da giovane, quando trovò le lettere. Lidia le urlò contro, chiamandole vecchie sciocchezze. Ma la ragazza capì che cera unaltra vita, un altro amore, che non era stato scelto per lui.

Il silenzio calò, interrotto solo dal ticchettio dellorologio.

Non è colpa tua, disse Zia Nina. È stato il tempo, le circostanze. Ma è importante che tu sappia che la tua famiglia ha vissuto compromessi, non menzogne.

Ginevra rifletté, sentendo la gravità di quelle parole.

Il giorno dopo tornò da Marco, che lattendeva al bar vicino alla metropolitana. Dopo un caffè, Ginevra gli raccontò brevemente la scoperta, tralasciando i dettagli più dolorosi.

È strano, disse Marco. Non dovresti impantanarti nel passato. Non cambierà nulla.

Non è per cambiare, rispose Ginevra. È per capire perché mamma è così, e perché anche io rimango in bilico.

Cosa intendi?

Che rimando sempre le decisioni. Penso che, se aspetto, tutto si risolverà da solo. Ma finisco per vivere a metà.

Marco rise.

Non tutto deve essere deciso subito. La vita è lunga.

Ginevra percepì la distanza tra loro, non solo fisica ma anche interiore. Sentì il desiderio che lui le chiedesse di più, che fosse curioso dei suoi sentimenti, ma lui sembrava solo volere che smettesse di pensare a cose complicate.

Facciamo così, domani ci vediamo, propose. Dobbiamo parlare.

Sembra un po drammatico, scherzò Marco.

Solo parlare, insistette.

Quella notte Ginevra girava nel letto, la storia di Lidia non la lasciava. Sentiva pietà per la nonna, per la madre, per quel soldato sconosciuto.

Il giorno dopo andò a casa della madre. La madre, in accappatoio, laccolse alla porta.

Che ti succede? chiese, guardandola.

Mi sono lasciata con Marco, disse Ginevra.

La madre alzò le mani.

Perché voi giovani siete così impazienti? E se poi le cose si sistemassero?

Vedi, noi vediamo il futuro diversamente, spiegò Ginevra. Io non voglio vivere in sospeso.

La madre esitò, poi sospirò.

Va bene. È la tua vita. Ma ricorda che niente è mai solo dolce.

Mentre prendevano il tè, Ginevra tirò fuori la cornice e la pose sul tavolo.

Zia Nina mi ha parlato di Carlo, disse. Volevo sapere perché.

La madre si fermò, non guardò la foto.

Perché? chiese a bassa voce.

Perché voglio capire. Non per accusarti, ma per conoscere.

La madre si sedette, il volto stanco.

Odiai quel Carlo ammise, guardando la foto. Non l Odiai quel Carlo ammise, guardando la foto, perché rappresentava per me il peso di un silenzio che ho deciso di spezzare.

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