Madre Orgogliosa della Figlia Ammessa al Collegio in Città.

Claudia Maria era orgogliosa che sua figlia fosse riuscita a entrare in un istituto tecnico della città. E non importava che avesse dovuto vendere la mucca per farlo. Era fondamentale fare tutto il possibile affinché il futuro di sua figlia fosse molto migliore della sua infelice giovinezza, trascorsa nel fango, girando le code delle mucche.

Ilaria, anche se studiava senza troppo impegno ed era stata ammessa al corso più semplice, dove accettavano chiunque solo per formare un gruppo, non aveva importanza. L’importante era che sua figlia si facesse strada nella vita, diventasse una persona rispettata, trovasse un ragazzo di città e costruisse una famiglia felice.

Claudia Maria era convinta che la vita di sua figlia sarebbe stata diversa dalla sua. Sicuramente avrebbe evitato il destino della madre e non si sarebbe sposata con un ubriacone, sacrificando tutta la sua vita a lui.

All’inizio, la madre si recava in città ogni settimana, portando alle sue figlie le cose più gustose e fatte in casa. Poi Ilaria le spiegò che tutti ridevano di lei e che non era necessario portarle provviste in quel modo, ma era meglio darle dei soldi. In città si vive diversamente che in campagna.

La madre le credette e smise di andare a trovare Ilaria, accordandosi con lei che la figlia sarebbe venuta al paese almeno di tanto in tanto. E così era: di solito andava una volta al mese per prendere dei soldi dalla madre e ripartire lo stesso giorno, senza voler mai restare.

Pietro apparve dal nulla. Ilaria e le sue amiche passeggiavano per la città di sera e alla fine si sedettero su una grande panchina nel parco. Si avvicinò una compagnia di ragazzi, incuriositi da quel gruppo di ragazze.

Tra loro c’era Alessandro, sempre pronto con le sue battute che facevano ridere le ragazze e attiravano la loro attenzione. Pietro intrigò Ilaria lui stava in disparte, facendo il giovane coraggioso che sputava di tanto in tanto e che, con le mani in tasca, mostrava di essere ormai un adulto.

Era di moda avere un ragazzo, così Ilaria, per non essere da meno e non risultare inferiore alle altre, si avvicinò a Pietro, considerandolo la sua preda più facile.

I suoi occhi non avevano ancora quell’esperienza adulta di Alessandro, sebbene sapesse già fumare e camminare a grandi passi. I due giovani iniziarono a uscire in coppia, apparendo a prima vista una coppia innamorata.

In realtà, si trattava di un accordo silenzioso tra due quasi adulti. Anche Pietro voleva vantarsi tra il suo gruppo di amici per il fatto di avere una ragazza. Anche lui voleva raccontare con fatica, come Alessandro, quanto fosse stanco di loro e discutere a lungo, durante le notti in dormitorio, su come lasciarla per conoscere un’altra ragazza.

In quella cerchia, tutti volevano essere il ragazzo di successo e affascinante, che aveva tutto senza sforzo, dall’attenzione femminile a una carriera fulminea. Fumavano di notte, sognando il futuro, immaginandosi come capi di miniere, fabbriche e altre strutture. E in questi sogni c’era sempre al centro una folla di donne affascinate da loro.

Un problema inatteso però distrusse la giovane coppia. Il gioco della vita adulta si trasformò in qualcosa di serio e maturo. Ilaria scoprì di essere incinta al quarto mese, quando non era più possibile abortire. Nel vortice di feste e divertimenti quotidiani, non notò i primi segni di quella condizione. Oppure, forse, non li conosceva.

Avere un figlio non faceva parte dei suoi progetti. La maternità avrebbe significato dire addio alla vita cittadina e tornare dalla madre, vivendo la sua vita monotona e noiosa, seppellendo la propria gioventù spensierata.

Pietro sparì immediatamente. La guardò stupito, ascoltando una frase che forse non comprese fino in fondo. Di certo non era un suo problema; almeno così pensò, considerando che il bambino non era nel suo corpo e quindi non spettava a lui prendere decisioni. L’importante era semplicemente svanire, smettendo di vedere Ilaria.

Lei continuava a recarsi dalla madre una volta al mese. Nel suo corpo esile non si notava nessun accenno a un futuro arrivo, anche grazie ai vestiti larghi che indossava per non far sospettare la madre.

Il bambino nacque sano. A lei, giovane ragazza, portavano il piccino e lo mettevano accanto. Ma lei si girava dall’altra parte. Vennero molti specialisti a parlare con lei. Anche il primario di reparto si avvicinò a Ilaria. Si sedette sul bordo del letto, guardandola con affetto paterno.

Per quanto provasse a farle capire il significato di tenere il bambino, lei rifiutava di prenderlo in braccio, e legalmente non potevano costringerla. Un giorno, Ilaria si avvicinò all’infermiera di turno e le chiese sottovoce come poter rinunciare al figlio.

Quella sospirò, come se si aspettasse già una decisione del genere da parte della giovane, ma provò a instradarla sulla retta via, spiegandole che, un giorno, potrebbe essere troppo tardi e non avrebbe potuto riaverlo indietro.

“Non mi serve,” disse Ilaria a bassa voce, e scrisse la rinuncia un giorno prima di essere dimessa.

Così Claudia Maria non seppe mai dell’esistenza del nipote. Questo segreto Ilaria lo mantenne per tutta la vita, non confessando mai ciò che aveva fatto a nessuno. E per non essere tormentata dai sensi di colpa, inventò una giustificazione, convincendosi di non avere alcuna colpa. Ilaria si ripeteva di essere troppo giovane allora, solo 18 anni, e che non avrebbe comunque potuto crescere un bambino.

Passarono dieci anni, ma i pensieri su suo figlio non la abbandonarono mai. Nonostante i tentativi di dimenticare bevendo alcol o trovandosi nuovi corteggiatori, il ricordo del bambino vicino a lei nel reparto maternità non svanì mai, restando ancorato nella sua mente.

Un giorno, Ilaria provò persino a cercare il bambino. Inaspettatamente ottenne lavoro in un panificio, decidendo di cambiare drasticamente la sua vita. Le venne assegnata una stanza in un dormitorio e le promisero un appartamento appena avesse avuto un figlio.

Allora Ilaria si ricordò di lui, il figlio nato e cresciuto da qualche parte, e pensò di doverlo semplicemente cercare. Creando nella sua mente un’idea semplice di arrivare all’ufficio e richiedere la restituzione del bambino, Ilaria si diresse decisa verso l’edificio dell’orfanotrofio.

Lì la attendeva la delusione. Il bambino era stato adottato già a soli tre mesi. La direttrice non si fermò a lungo con Ilaria, spiegandole il segreto dell’adozione e la congedò, chiudendole la porta.

Così finirono tutti i suoi tentativi di rimediare a quell’errore, anche se i pensieri su suo figlio non svanirono mai. Gli uomini nella vita di Ilaria continuavano a susseguirsi. Alcuni non volevano restare accanto a lei, altri non erano adatti a lei per qualche ragione.

Alcuni le proposero di sposarsi e avere figli insieme, ma lei sempre rifiutò. Non si vedeva come madre, non comprendeva perché ne avesse bisogno e evitava ogni occasione. Infine smise persino di andare a trovare sua madre in paese, esasperandola con il suo silenzio. Disprezzava la vita di sua madre che, un tempo, si era rovinata a causa di quell’ubriacone. Quante volte l’aveva accudito come un bambino, dimenticandosi di tutto, raccogliendolo u*****a davanti al negozio, ora vicino alla porta di casa, ora trainandolo ubriaco su una slitta dagli ospiti.

Fin dall’infanzia guardava il padre con odio, dicendosi che non avrebbe mai sposato uno come lui. Tuttavia, il destino crudele le fece incontrare proprio un uomo simile.

Dopo le speranze infrante all’orfanotrofio, Ilaria si sposò con Giorgio. Lui aveva il suo appartamento, di cui andava fiero, chiedendo sempre gratitudine nei suoi confronti come moglie.

Ripeteva instancabilmente che l’azienda gli aveva dato l’appartamento non per nulla, ma per meriti. Intanto, indossando un vecchio canottiera, sbatteva il pugno sul petto, facendo un’espressione seria e minacciosa.

La gioventù passò, sognando e desiderando un futuro felice che mai si realizzò per Ilaria. Quella sera Giorgio fu portato in ospedale. Dopo l’ultimo sbronzo e il desiderio di smettere, il suo cuore ebbe un attacco che non riuscì a gestire con le semplici pillole.

A casa da sola, guardava fuori dalla finestra, piangeva, ma non per chi stava lottando per la propria vita, aggrappandosi alla vita in terapia intensiva. Piangeva per se stessa. Pensava di meritare una vita migliore, una vita che non aveva mai visto.

Ilaria era convinta che il destino fosse stato ingiusto con lei. Era il destino che le aveva dato uomini sbagliati, creato litigi sul lavoro che portarono al licenziamento e non le aveva permesso di avere una casa propria, costringendola a sopportare quell’uomo ormai rovinato.

Qualcuno bussò alla porta. Ilaria non chiese chi fosse, perché la vicina era passata più volte informandosi sullo stato di Giorgio, fingendo di preoccuparsene.

La vecchia porta malandata si aprì cigolando. Un ragazzo di circa 25 anni stava lì.

“Cosa vuoi? Vieni dall’ospedale? È morto?” Ilaria era convinta che a quell’ora le avrebbero comunicato della morte del marito.

“Non so di chi parli,” rispose lui, guardandola con uno sguardo strano, tentando di riconoscere in lei caratteristiche particolari. Si strinse le palpebre, osservando attentamente le sue rughe e cercando di indovinare il colore degli occhi.

“Ma sei normale? Cosa vuoi?” chiese lei, chiedendo spiegazioni a quel ragazzo.

“Io sono Ettore, nato il 24 febbraio 1998,” si interruppe.

Ilaria si spostò dalla porta, facendolo entrare in casa, ma non riusciva a parlare. La sua lingua sembrava paralizzata. Non essendo preparata all’arrivo del figlio nella sua vita, non sapeva cosa dirgli. E cosa voleva lui? Lei non aveva ricchezze da offrirgli e non capiva cosa ci facesse lì.

“Perché sei qui?” Ilaria cercava di parlare, ma le riusciva male, balbettava e aveva un tono quasi impercettibile, “Vuoi soldi? Non ho nulla da darti.”

“Non mi manca niente, signora Ilaria. Ho un buon lavoro, ottima paga. Ho appena comprato un nuovo appartamento, e sotto c’è la mia macchina,” senza togliere le scarpe, Ettore si avvicinò alla finestra, indicandole la sua auto, parcheggiata davanti al palazzo, “Ho una moglie, due figli. Ma ho sempre sognato di vedere la donna che mi aveva dato alla luce. Non capisco perché. Volevo solo vederti.”

“Hai visto?”, chiese lei.

“Sì,” disse, osservando i vecchi muri mal ridotti, il mobile dallo specchio scheggiato che pendeva traballante dalla parete, e il tavolo con le macchie di cibo, “grazie.”

“Grazie per cosa?” Si aspettava parole di giudizio, di odio e rabbia da lui, ma non era pronta per la sua gratitudine.

“Grazie per avermi lasciato lì, all’ospedale. Una decisione giusta. I miei genitori avrebbero mai potuto offrirmi tanto amore, cure e attenzione. Ho scoperto di non essere figlio biologico solo a 18 anni. È stato difficile, dovresti vedere i miei genitori, sono persone meravigliose. Ho riflettuto a lungo, poi ho deciso di trovarti, per mettere fine a questi pensieri. Non riuscivo a capire perché una madre potesse abbandonare il proprio figlio. La mia madre adottiva non mi avrebbe mai lasciato, è sempre stata dalla mia parte. Ma a te volevo dare un’occhiata. Sono felice di essere passato.”

Ettore si girò e si avviò verso la porta. Ilaria tentava di dire qualcosa con voce tremante, ma lui non la ascoltò. Solo quando raggiunse la soglia, si fermò per pronunciare un’ultima frase.

“Grazie per avermi fatto nascere, e grazie per avermi lasciato all’ospedale. Grazie, ho potuto incontrare i miei genitori.”

Ettore se ne andò, lasciando Ilaria nel dubbio. Solo quella notte capì tutto ciò che era accaduto e si mise a piangere, ma ancora una volta, piangeva più per sé stessa che per suo figlio…

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