L’alba mi accolse in silenzio. Di solito, mia madre Beatrice mi svegliava con una voce dolce prima della colazione, ma quel giorno non c’era. Aprii gli occhi e capii: se n’era andata. Per sempre. L’armadio era vuoto, i suoi vecchi stivali non erano più all’ingresso e il letto era piegato con cura in un angolo. Sul tavolo della cucina c’era un biglietto, solitario come il suo cuore. Mi bloccai a guardarlo e qualcosa dentro di me si spezzò.
Mi trovai davanti alla porta di una casa di riposo in un paesino sperduto vicino a Firenze, stringendo i pugni per fermare il tremore. Attraverso il vetro appannato, la vidi: mia madre, invecchiata, curva, sola davanti alla finestra. Una volta, avevo scelto una nuova vita con mia moglie, respingendola, l’unica che mi avesse mai amato davvero, per un po’ di felicità effimera. Ora, il dolore per il mio tradimento mi divorava. Come avevo potuto farle questo, a colei che mi aveva dato la vita?
Mio padre ci aveva abbandonato quando ero ancora piccolo. Se n’era andato senza voltarsi, lasciando mia madre da sola. Aveva solo trent’anni, era bella, piena di energia, ma invece di rifarsi una vita, scelse me. Le avevano proposto matrimonio, promettendole sicurezza, ma a una condizione: rinunciare a suo figlio. Rifiutò ogni proposta senza esitare. La sua scelta ero io. Beatrice lavorava come pasticcera in una panetteria locale, facendo turni su turni per pagare il nostro modesto alloggio e la mia istruzione. Le sue mani, sempre rosse e gonfie per l’impasto, non conoscevano riposo. Ma non si lamentava. Mai.
Ricordo quando tornava dal turno di notte, metteva su il bollitore e mi dava un panino ancora caldo. A volte, quando lo stipendio tardava, mi guardava mangiare e poi finiva lei le briciole. Ero troppo piccolo per capire: aveva paura che restassi affamato. Il suo amore era infinito, sacrificale. Per me, era tutto il mondo. “Non mi sposerò mai,” diceva, “perché nessuno possa farti del male.” E io credevo che con una madre così non mi servisse altro.
La mia infanzia fu felice, nonostante le privazioni. Mia madre non dormiva, mangiava poco, ma sorrideva sempre. Tutto cambiò quando la panetteria chiuse e l’artrite le bloccò le dita. Ogni movimento le causava un dolore atroce, ma nessuno la assumeva. Io finivo le superiori e lavoravo in un negozio: pulivo, caricavo scatoloni, stavo alla cassa. Mi pagavano in generi alimentari e spiccioli, ma mettevo da parte per le sue medicine. Sapevo quanto fosse orgogliosa dei miei successi e studiavo più degli altri. Presi il diploma con lode e mi iscrissi all’università a Firenze. Ci trasferimmo, sperando in una nuova vita.
In città, le cose andavano meglio. Lavoravo in un bar e in un magazzino, i soldi bastavano per mangiare e qualche piccolo piacere. Ci assegnarono una stanza in un dormitorio e cercavo di rendere la sua vita più bella: la portavo a teatro, le compravo vestiti, le mostravamo la città. Sorrideva, ma vedevo che il dolore alle mani non la abbandonava. Tutto sembrava perfetto, finché non incontrai lei: la ragazza che mi cambiò la vita.
Si chiamava Ginevra. La conobbi al secondo anno. Brillante, spregiudicata, di famiglia ricca, sembrava un sogno irraggiungibile. Gli amici mi invidiavano per aver conquistato una ragazza così. La nostra relazione mi travolse e presto mi propose di vivere insieme. Non ero pronto, ma mi diede un ultimatum: o insieme, o niente. Accettai. Non potevamo vivere da lei: i suoi genitori mi disprezzavano, il figlio di una semplice pasticcera. Restava solo la nostra stanza nel dormitorio.
Non presentai Ginevra a mia madre. Mi vergognavo. Mia madre, segnata dalla fatica, e la madre di Ginevra, una donna elegante con le unghie perfette. Sapevo di essere meschino, ma non riuscivo a fermarmi. Decisi di parlarle, sapendo già cosa avrei fatto. Stavo per cacciarla.
“Mamma, ho conosciuto una ragazza. Andremo a vivere insieme,” dissi, evitando il suo sguardo.
“Figlio mio, sono così felice per te! Quando me la presenti?” La sua voce tremava di gioia.
“Non ora, mamma. E tu… dove vivrai?”
Esitò. Vidi l’ombra sul suo viso.
“Tornerò al paese. Starò dalla zia Anna,” rispose, quasi sussurrando.
“Ma per quanto? E gratis?” Pressai, sapendo che la zia Anna, sola e scontrosa, difficilmente l’avrebbe accolta.
“Non preoccuparti, figliolo. La zia è sola, le farò compagnia. Tu risparmia, mangia bene, prenditi cura della tua ragazza.”
Vidi il dolore nei suoi occhi, ma l’amore per Ginevra mi accecò. La mandai nel nulla, sapendo che non aveva né soldi né salute. Andai a dormire e al mattino non c’era più. Se ne era andata in silenzio, lasciando un biglietto:
“Lorenzo, non preoccuparti per me. Non mi ero accorta di quanto fossi cresciuto. So che ti vergogni di me, e non ti biasimo. Di’ alla tua ragazza che non hai madre: sarà più semplice. Sii felice, figlio mio. Se mai avrai bisogno, sono dalla zia Anna.”
Le lacrime mi bruciarono gli occhi. Sapevo che vagava da qualche parte, malata e senza casa, ma Ginevra stava già traslocando da me. Ci sposammo e, influenzato da lei, non invMia madre morì quella notte, sola e dimenticata, mentre tenevo in braccio mia figlia e finalmente capivo il peso infinito di un amore che non avevo saputo ricambiare.