Madre scomparsa nel nulla

Mattina, quella mattina, era stranamente silenziosa. Di solito, mia madre, Elisabetta, mi svegliava con una voce dolce prima di colazione, ma quel giorno non c’era. Aprii gli occhi e capii: se n’era andata. Per sempre. L’armadio spalancato, vuoto, i suoi vecchi stivali non erano più accanto alla porta, e il letto era piegato con precisione in un angolo. Sul tavolo della cucina, una lettera solitaria, come il suo cuore. Rimanendo immobile a guardarla, qualcosa dentro di me si spezzò.

Mi trovai davanti alla porta di una casa di riposo in un paesino sperduto vicino a Napoli, stringendo i pugni per fermare il tremore. Attraverso il vetro opaco la vidi: mia madre, invecchiata, curva, sola davanti alla finestra. Una volta avevo scelto una nuova vita con mia moglie, respingendola, la mia unica, per una felicità effimera. Ora il rimorso per il mio tradimento mi divorava dall’interno. Come avevo potuto fare questo a colei che mi aveva dato la vita?

Mio padre ci aveva lasciato quando ero ancora un bambino. Se n’era andato senza voltarsi, abbandonando mia madre da sola. Aveva appena trent’anni, era bella, piena di forza, ma invece di rifarsi una vita scelse me. Le avevano offerto matrimoni, promesso agi, ma a una condizione: rinunciare a suo figlio. Lei aveva rifiutato ogni corte, senza esitare. La sua scelta ero io. Elisabetta lavorava come pasticciera in una panetteria locale, prendendo turni su turni per pagare il nostro modesto appartamento e la mia scuola. Le sue mani, sempre rosse e gonfie per la pasta, non conoscevano riposo. Ma non si lamentava. Mai.

Ricordo quando tornava dal turno di notte, accendeva il bollitore e mi portava una brioche ancora calda. A volte, quando lo stipendio tardava, guardava mentre mangiavo e dopo finiva lei le briciole. Ero troppo piccolo per capire: aveva paura che restassi affamato. Il suo amore era infinito, sacrificato. Per me era tutto. «Non mi sposerò mai», diceva, «perché nessuno possa farti del male». E io credevo che con una madre così non mi servisse altro.

La mia infanzia era stata felice, nonostante tutto. Lei non dormiva la notte, mangiava poco, ma sorrideva sempre. Tutto cambiò quando la panetteria chiuse e l’artrite le bloccò le dita. Ogni movimento le causava un dolore atroce, ma non trovava lavoro. Stanca e malata, nessuno la voleva. Io finivo il liceo e lavoricchiavo in un negozietto: pulivo, spostavo scatoloni, stavo alla cassa. Mi pagavano in generi alimentari e spiccioli, ma mettevo da parte per le sue medicine. Sapevo quanto si emozionasse per i miei successi e studiavo più degli altri. Finite le superiori con il massimo dei voti, entrai in una prestigiosa università a Roma. Ci trasferimmo, sperando in una vita nuova.

In città le cose migliorarono. Lavoravo in un bar e in un magazzino, i soldi bastavano per mangiare e piccoli piaceri. Avevamo una stanza in un dormitorio, e cercavo di rendere la sua vita più bella: la portavo a teatro, le compravo vestiti, le mostravo la città. Sorrideva, ma vedevo che il dolore alle mani non la lasciava. Tutto andava bene, finché non incontrai lei: la ragazza che mi sconvolse la vita.

Si chiamava Beatrice. La conobbi al secondo anno di università. Vivace, spavalda, di famiglia benestante, mi sembrava un sogno irraggiungibile. Gli amici mi invidiavano perché avevo conquistato una ragazza così. La nostra relazione mi travolse, e presto Beatrice propose di vivere insieme. Non ero pronto, ma mi diede un ultimatum: o insieme, o era finita. Accettai. A casa sua non potevamo stare: i suoi genitori mi disprezzavano, figlio di una semplice pasticciera. Restava solo la nostra stanza.

Non presentai Beatrice a mia madre. Mi vergognavo. Mia madre, logorata dagli anni di fatica, e la madre di Beatrice, una donna elegante con la manicure perfetta. Sapevo di essere spregevole, ma non potevo farci niente. Decisi di parlarle, sapendo cosa stavo per fare. Stavo per cacciarla.

«Mamma, ho conosciuto una ragazza. Vivremo insieme», iniziai, evitando il suo sguardo.

«Figlio mio, sono così felice! Quando me la presenti?», la sua voce tremava di gioia.

«Non ora, mamma. Ma tu dove vivrai?»

Esitò. Vidi il suo volto rabbuiarsi.

«Io… torno al paese. Starò dalla zia Lucia», rispose piano.

«Ma per quanto? E sarà gratis?», insistevo, sapendo che zia Lucia, sola e scontrosa, difficilmente l’avrebbe accolta.

«Non preoccuparti, figlio. Zia Lucia è sola, ha bisogno di compagnia. Tu metti da parte i soldi, mangia bene, prenditi cura della tua ragazza.»

Vidi il dolore nei suoi occhi, ma l’amore per Beatrice mi accecò. La mandai in un posto che non esisteva, sapendo che non aveva né soldi né salute. Andai a dormire, e al mattino non c’era più. Se n’era andata in silenzio, lasciando un biglietto:

*Figlio mio, non preoccuparti per me. Non mi sono accorta di quanto sei cresciuto. So che ti vergogni di me, e non ti biasimo. Di’ alla tua ragazza che non hai madre, sarà più facile. Sii felice. Se hai bisogno, sono da zia Lucia.*

Le lacrime mi bruciavano gli occhi. Sapevo che vagava chissà dove, malata e senza casa, ma Beatrice stava già traslocando da me. Ci sposammo, e sotto la sua influenza, non invitai mia madre. Dissi a tutti che era morta. Gli anni passarono, il lavoro mi assorbì, e non la cercai.

Quando nacque nostra figlia, capii cosa significava essere genitore. Dissi a Beatrice la verità su mia madre. Lei esplose:

«E adesso vuoi andare a cercarla? E se si porta qui le sue malattie? Pensa a tua figlia!»

«Bea, è sua nonna. Devo sapere se sta bene.»

Iniziai a cercarla. Zia Lucia era morta poco dopo il nostro trasloco, e mia madre non poteva essere da lei. Nessuno al paese l’aveva vista. Disperato, andai al fiume dove da piccoli costruivamo mangiatoie per uccelli. In una, trovai una vecchia lettera:

*Figlio, se leggi questo, significa che mi hai cercato. Sono nella casa di riposo “Sole d’Oro”, vicino alla tua università. Ti ho visto felice, e non volevo disturbarti.*

Corsi in città, incredulo che fosse stata così vicina. Alla casa di riposo mi dissero che l’avevano trovata in inverno, a chiedere l’elemosina per strada. Mia madre, e l’elemosina? Non ci credevo. Nella sua stanza vidi una vecchia in stracci. Non mi riconobbe subito.

«Mamma… sono io», riuscii a dire, cadendo in ginocchio.

Mi accarezzò i capelli, piangendo:

«Figlio mio, mi hai trovato. Aspettavo.»

«Andiamo a casa, mamma. Hai una nipotina.»

«Una nipotina?», i suoi occhi si illuminarono.

A casa, Beatrice ci accolse urlando:

«Chi è questa donna? Mi hai detto che tua madre era morta in un incidente!»

Non riuscii a trattenermi e le diedi uno schiaffo. Annunciai il divorzio. Lei minacciò di non farmi più vedere mia figlia, ma non m’importava. Non potevo perdonarmiMa quando raggiunsi la porta, era troppo tardi: mia madre giaceva a terra, senza vita, e capii che l’ultima cosa che aveva visto era il mio volto pieno di rimpianto.

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