**14 Marzo 20XX**
Veronica non riusciva a capacitarsi di come suo marito Enrico permettesse a sua madre di intromettersi così sfacciatamente nella loro vita. Sapeva bene quanto lui avesse sofferto da bambino—il freddo, l’indifferenza, il fratello maggiore, Matteo, immerso nell’amore materno mentre lui, Enrico, cresceva con i suoi vestiti lisi, relegato in un angolo.
Perché ora, adulto, uomo affermato, padrone di casa, lasciava che sua madre, Valeria, entrasse come se fosse nella sua proprietà—non da ospite, ma da padrona—occupando quella stanza che avrebbe dovuto essere la cameretta del loro futuro bambino?
“È pur sempre mia madre,” mormorava Enrico, come se si giustificasse non solo con Veronica, ma con la sua stessa coscienza. “Resistiamo ancora un po’. Tanto i bambini non ci sono ancora.”
Cercava di smussare gli angoli, ma dentro ribolliva. Finalmente viveva come aveva sempre sognato: una casa comprata, sposato con la donna che amava, addormentarsi senza l’ansia di sentirsi di troppo. E ora, eccola lì—sua madre. Con le valigie, i rimproveri, e la pretesa eterna di ciò che le “spettava”.
“Eri tu a dire che quella stanza sarebbe stata per i bambini!” sbottò Veronica senza trattenersi. “E ora c’è tua madre a comandare. Senza chiedere, senza discutere.”
Enrico tacque. Sì, aveva comprato quella casa proprio per quelle due stanze—la camera da letto e quella dei bambini. Perché sognava una famiglia. E ora quel sogno veniva di nuovo messo da parte. Come da piccolo.
Tutto tornava.
Ricordava il loro bilocale, dove Matteo riceveva sempre il meglio—regali, vestiti nuovi, dolci per il compleanno. Lui, invece, ascoltava le solite storie sui risparmi, su ciò che “non potevano permettersi”, su come la felicità fosse un lusso. Ricordava quando sua madre tirava fuori gli ultimi soldi per una giacca nuova a Matteo, mentre a lui comprava scarpe usate al mercato. Sapeva di essere stato il figlio “degli avanzi”.
E ora lei era di nuovo lì. Diceva che sarebbe rimasta “solo qualche giorno”, ma aveva già sistemato le sue cose, dispensava consigli non richiesti, criticava Veronica—per come cucinava, puliva, persino per come si vestiva. E di nuovo, come allora, risvegliava in Enrico quel senso di colpa: non essere abbastanza, non aver fatto abbastanza.
Veronica cercava di resistere. Ma sempre più spesso crollava. Si lamentava con Enrico—Valeria spostava di proposito le sue cose, sostituiva il cibo sano nel frigo con sughi pesanti e carni fritte, criticava persino l’acqua che beveva.
“Lo fa apposta. Sono sicura che sia tutto per provocarmi,” disse Veronica, stringendo i pugni.
Enrico provò a parlare con sua madre. Ma lei ribatté:
“Mi cacci da questa casa che hai comprato grazie alle mie preghiere? Io lascerò tutto a Matteo, e voi due scappate da me. Ingrati!”
Lui scrollò le spalle. Non voleva quell’appartamento. Ma quando Veronica—con voce spezzata—gli mostrò i documenti trovati tra le cose di Valeria, Enrico non credette ai suoi occhi. Tutto era intestato a Matteo: l’appartamento, il garage, perfino quel pezzo di terra dove da bambino piantava le patate. Tutto ciò che sua madre gli aveva promesso erano state bugie.
“A me cantava che sarebbe stato tutto mio. Che viveva per me.” Enrico cadve sulla poltrona.
Non pianse. Ma il suo silenzio fece male a Veronica più di qualsiasi parola.
Il giorno dopo, se ne andò al lavoro senza dire nulla. Tornando quella sera, scoprì che sua madre non c’era più. Le sue valigie erano fuori dal cancello, e negli occhi di Veronica bruciava la rabbia.
“L’ho fatta uscire, Enri. Scusami se dovevamo parlarne, ma non ce la facevo più.”
“Per i documenti?” chiese lui, esausto.
“Non solo. Quando le ho detto che sapevo la verità, mi ha chiamata nessuno. Ha detto che tu sei suo figlio, io solo un ragE quella sera, mentre teneva in braccio il loro bambino, Enrico capì che la felicità non era un debito da pagare, ma un diritto da vivere.