“Mamma, come hai potuto fare una cosa simile?”
Ancora oggi non riesco a credere che quella conversazione con mia madre sia davvero avvenuta. Chiamai quel giorno solo per salutarla, chiederle come stava, e invece mi ritrovai al centro di un dramma familiare che sconvolse tutto. “Mamma, dici sul serio? – urlai quasi al telefono. – Io sono tuo figlio unico, ho un bambino che cresce, tuo nipote che non hai mai visto, e tu regali il tuo appartamento a una sconosciuta? E poi mi saluti come se nulla fosse, con quel ‘Ciao, figliolo, è tanto che non chiami’?” Dall’altra parte del telefono, mia madre taceva, mentre sentivo ribollire dentro di me un misto di rancore e incomprensione. Come aveva potuto fare una cosa del genere?
Mi chiamo Marco, ho trentacinque anni, e sono l’unico figlio di mia madre, Elena Rossi. I nostri rapporti non sono mai stati semplici. Da bambino, lei lavorava giorno e notte per mantenerci, e per questo le sarò sempre grato. Ma la sua rigidezza e il suo bisogno di controllare tutto avevano scavato un abisso fra noi. Dopo il mio matrimonio con Laura e la nascita di nostro figlio Luca, speravo che si avvicinasse alla nostra famiglia. Invece non venne mai a conoscere suo nipote, dicendosi troppo occupata o non in salute. Io evitavo di insistere, chiamavo una volta al mese, inviavo foto di Luca, ma le risposte erano sempre le stesse: “Bene, figliolo, sono contenta per voi”. E ora scoprivo che aveva donato il suo appartamento a una donna estranea.
Tutto cominciò quando mia zia, Francesca, sorella di mia madre, mi telefonò per dirmi che Elena aveva firmato un atto di donazione. Pensai a un errore – forse mia zia aveva capito male. Ma lei era certa: mia madre aveva regalato la casa a una certa Giovanna, che, a suo dire, “la aiutava con le faccende domestiche”. Rimasemmo sbalorditi. Mia madre vive in un paesino alle porte di Firenze, in un bilocale che aveva comprato con mio padre da giovane. Non era solo una proprietà, era la nostra storia, il luogo dove ero cresciuto. E ora apparteneva a una sconosciuta?
Chiamai subito mia madre per avere spiegazioni. Rispose con calma, come se nulla di strano fosse accaduto. “Sì, Marco, ho donato l’appartamento a Giovanna – disse. – È una brava donna, mi assiste, fa la spesa, mi aiuta a pulire. Tu sei lontano, hai la tua vita”. Non sapevo cosa rispondere. Sì, io e Laura viviamo a Milano, a due ore di treno, ma avevo sempre offerto il mio aiuto! Chiamavo, chiedevo se serviva qualcosa, proponevo di venire o di pagare una badante. Ma lei scuoteva sempre la testa: “Non serve, me la cavo da sola”. E ora mi diceva che ero “troppo lontano”, mentre Giovanna era la sua unica sostegno?
Chiesi chi fosse questa Giovanna e perché si fidasse così tanto di lei. Venne fuori che era una vicina che, un paio d’anni prima, aveva iniziato a farle compagnia e ad aiutarla. Secondo mia madre, era “come una figlia” – preparava da mangiare, andava in farmacia, la portava persino nella casa di campagna. Non avevo nulla contro chi la assisteva, ma regalarle la casa? Non era un pacchetto di biscotti! Cercai di spiegarle che non era giusto verso di me e Luca. “Mamma, io sono tuo figlio, Luca è tuo nipote. Non sai nemmeno come sia fatto, e dai tutto a una straniera? Come puoi pensare sia giusto?” Ma lei sospirò e rispose: “Marco, tanto tu non vieni, e Giovanna è qui. E poi, questa è la mia decisione”.
Senti montare dentro di me la rabbia. Vero, non andavo ogni mese – avevo il lavoro, la famiglia, il mutuo dell’auto. Ma credevo che tra noi ci fosse un legame, che pensasse al nostro futuro. Luca aveva solo quattro anni, stava crescendo, e avevo sempre immaginato che un giorno quell’appartamento sarebbe stato utile per lui – magari per gli studi o la prima casa. Ma ora tutto era finito nelle mani di questa Giovanna, di cui non sapevo nulla fino al giorno prima. Chiesi a mia madre se non temesse che quella donna si approfittasse della sua solitudine. Ma tagliò corto: “So quello che faccio. Giovanna è una persona perbene”.
Dopo quella chiamata, faticai a calmarmi. Laura, vedendomi turbato, propose di andare da mia madre di persona. Così partimmo con Luca per il suo paesino. Quando arrivammo, lei ci accolse con affetto, abbracciò il nipotino, ma si vedeva che era tesa. Versando il tè, riproposi il discorso dell’appartamento. Non volevo litigare, ma dovevo capire. “Mamma, spiegami – dissi. – Se hai bisogno di aiuto, posso venire più spesso, posso assumere qualcuno. Ma perché regalare la casa?” Mi guardò stanca e rispose: “Marco, non voglio essere un peso. Giovanna si occupa di me, tu hai i tuoi impegni. Così nessuno deve preoccuparsi”.
Quelle parole mi ferirono più del previsto. Davvero pensava che sarebbe stata un peso? Provai a dirle che eravamo la sua famiglia, che Luca sognava di avere una nonna, che volevo esserle vicino. Ma lei scosse solo la testa. In quel momento capii che si sentiva sola, e Giovanna aveva colmato quel vuoto. Fu doloroso da accettare, ma iniziai a vederle le cose con i suoi occhi.
Tornammo a casa, e ancora non so come affrontare la situazione. Legalmente, è quasi impossibile annullare la donazione – mia madre era lucida e aveva tutto il diritto di farlo. Ma non riesco a digerire che abbia scelto una sconosciuta invece di noi. Ho deciso di chiamare più spesso, di visitarla, di portarle Luca perché impari a conoscere sua nonna. Forse, col tempo, capirà che noi siamo la sua vera famiglia. Quanto a Giovanna… spero solo che si prenda davvero cura di lei, e non abbia secondi fini. Ma questa storia mi ha insegnato una cosa: non si può rimandare l’amore per chi ci è caro. La vita è troppo breve per perderli di vista.