Mamma mi accusa di non aiutare il fratello malato, ma dopo la scuola sono scappata di casa.

La madre mi rimprovera perché non l’aiuto con mio fratello malato, ma dopo la scuola ho fatto i bagagli e sono scappata di casa.

Beatrice sedeva su una panchina nel parco di Verona, osservando le foglie che danzavano nel vento freddo dell’autunno. Il suo telefono vibrò di nuovo—un altro messaggio della madre, Isabella: «Ci hai abbandonato, Beatrice! Federico sta peggio, e tu vivi la tua vita come se niente ti riguardasse!» Ogni parola era come un colpo, ma Beatrice non rispose. Non poteva. Nel suo cuore si combattevano sensi di colpa, rabbia e dolore, che la trascinavano indietro, verso la casa da cui era fuggita cinque anni prima. Allora, a diciotto anni, aveva fatto una scelta che aveva spezzato la sua vita in un “prima” e un “dopo”. E ora, a ventitré anni, ancora non sapeva se aveva fatto la cosa giusta.

Beatrice era cresciuta all’ombra del fratello minore, Federico. Aveva tre anni quando i medici gli diagnosticarono una grave forma di epilessia. Da quel momento, la loro casa si era trasformata in una stanza d’ospedale. La madre, Isabella, si era dedicata completamente a lui: medicine, dottori, esami senza fine. Il padre se n’era andato, incapace di reggere il peso, lasciando Isabella sola con due figli. Beatrice, che allora aveva sette anni, era diventata invisibile. La sua infanzia si era dissolta nelle cure per il fratello. «Bea, aiutami con Federico», «Bea, non fare rumore, non deve agitarsi», «Bea, aspetta, ora non ho tempo per te». Aspettava, ma ogni anno sentiva i suoi sogni e desideri spinti sempre più lontano.

Nell’adolescenza, Beatrice aveva imparato a essere «comoda». Cucinava, puliva, badava a Federico mentre la madre correva da un ospedale all’altro. Le amiche la invitavano a uscire, ma lei rifiutava—a casa avevano sempre bisogno di lei. Isabella la lodava: «Sei il mio sostegno, Bea», ma quelle parole non la scaldavano. Beatrice vedeva lo sguardo della madre rivolto a Federico—un misto di amore e disperazione—e capiva che per lei quello sguardo non sarebbe mai esistito. Non era una figlia, ma un’aiutante, il cui unico ruolo era alleviare il fardello della famiglia. Nel profondo amava il fratello, ma quell’amore era intriso di stanchezza e rancore.

All’ultimo anno di liceo, Beatrice si sentiva un’ombra. I suoi compagni parlavano di università, feste, progetti per il futuro, mentre lei non poteva pensare ad altro che alle spese mediche e alle lacrime della madre. Un giorno, tornando da scuola, trovò Isabella in preda al panico: «Federico ha bisogno di una nuova terapia, ma non abbiamo i soldi! Devi aiutarmi, Bea, trovati un lavoro dopo la scuola!» In quel momento, qualcosa dentro di lei si ruppe. Guardò la madre, il fratello, le mura che l’avevano soffocata per tutta la vita, e capì: se fosse rimasta, sarebbe scomparsa per sempre. Le faceva male, ma non poteva più essere la persona che tutti si aspettavano.

Dopo la maturità, Beatrice preparò uno zaino. Lasciò un biglietto: «Mamma, vi amo, ma devo andare. Perdonami». Con cinquecento euro messi da parte con lavoretti occasionali, comprò un biglietto per Milano. Quella sera, seduta sul treno, piangeva, sentendosi una traditrice. Ma nel suo petto batteva anche qualcosa di nuovo—la speranza. Voleva vivere, studiare, respirare, senza voltarsi indietro verso i corridoi degli ospedali. A Milano affittò una stanza in un ostello, trovò lavoro come cameriera, si iscrisse all’università da lavoratrice. Per la prima volta si sentì una persona, e non solo una funzione.

Isabella non la perdonò. I primi mesi chiamava, urlava, la supplicava di tornare. «Sei un’egoista! Federico soffre senza di te!»—la sua voce tagliava Beatrice come un coltello. Mandava soldi alla madre quando poteva, ma non aveva intenzione di tornare. Con il tempo, le chiamate si fecero più rare, ma ogni messaggio era carico di rimproveri. Beatrice sapeva che Federico stava male, che la madre era esausta, ma non poteva più reggere quel peso. Voleva amare il fratello da sorella, non da badante. Eppure, ogni volta che leggeva le parole della madre, si chiedeva: «Se fossi rimasta, chi sarei ora?»

Oggi Beatrice vive la sua vita. Ha un lavoro d’ufficio, amici, progetti per la magistrale. Ma l’ombra del passato non la lascia. Le manca Federico, il suo sorriso nei giorni buoni. Ama la madre, ma non può perdonarle l’infanzia rubata. Isabella continua a scrivere, e ogni messaggio è un’eco della casa da cui Beatrice è fuggita. Non sa se potrà mai tornare, spiegarsi, riconciliarsi. Ma sa una cosa: il giorno in cui quel treno l’ha portata via da Verona, ha salvato se stessa. E quella verità, per quanto amara, le dà la forza di andare avanti.

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Mamma mi accusa di non aiutare il fratello malato, ma dopo la scuola sono scappata di casa.