Mamma, non andare via

**Mamma, non andare via**

Dopo cena, la mamma si sedette accanto a Stefano, di sette anni, e gli mise un braccio intorno alle spalle. Lui si irrigidì. L’ultima volta che l’aveva fatto, gli aveva annunciato che sarebbe partita per qualche giorno per lavoro e che lui sarebbe rimasto da zia Anna, un’amica sua. Il problema era che zia Anna aveva una figlia, Monica, una bambina viziata e antipatica che lo prendeva sempre in giro e lo chiamava “nanerottolo”.

«Devi partire di nuovo? Non voglio andare da zia Anna. Monica è terribile», disse Stefano, fissando la mamma.

Lei sorrise e gli accarezzò i capelli ribelli. Stefano si fece coraggio.

«Mamma, per favore, portami con te», cominciò a implorare.

«Non posso. Sarò occupata tutto il giorno. Cosa faresti lì da solo?» Si alzò dal divano e iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, nervosa.

«Hai detto che sono grande ormai. Non voglio stare da zia Anna con Monica. Posso rimanere da solo?»

«Basta lamentarti!» lo rimproverò. «Sei troppo piccolo per stare da solo. E se succedesse qualcosa? Se non vuoi andare da zia Anna, ti porto dalla nonna.»

«A Firenze?» chiese Stefano, illuminandosi.

«No, ti porto dall’altra nonna, la mamma di tuo padre.»

Per Stefano fu una sorpresa scoprire di avere un’altra nonna. Non l’aveva mai vista.

«Non voglio», disse, per precauzione.

«Non ti sto chiedendo il permesso. Prendi i libri e quello che vuoi portare. Io preparo le tue cose.»

Il cuore di Stefano cominciò a battere forte. L’ultima volta che la mamma lo aveva portato da zia Anna, non aveva portato nulla con sé. Significava che sarebbe stata via a lungo.

«Non voglio viaggiare con le valigie. Posso venire con te?» continuò a piagnucolare.

«Smettila! Gli uomini non piangono.»

«Sono un bambino, non un uomo», singhiozzò.

La mattina dopo si vestì lentamente, sperando che la mamma cambiasse idea o perdesse la pazienza e lo lasciasse a casa. Lei invece lo sgridò perché il taxi li stava aspettando e, per colpa sua, non avrebbero fatto colazione.

Attraversarono tutta Roma in taxi, poi salirono in ascensore. Stefano fissò i numeri sul display. L’ascensore si fermò all’undicesimo piano, e la mamma lo spinse verso una porta di metallo.

Ad aprire non c’era una donna che sembrava una nonna, ma una signora in un lungo accappatoio rosso con ricami dorati, i capelli raccolti in un’elaborata pettinatura. Lo fissò con un’espressione schifata, come se avesse visto un topo. La mamma strillava sempre alla vista dei topi. Lei no, ma il suo sguardo non prometteva nulla di buono.

Di solito, gli adulti dicevano: «Chi è questo bel bambino?» Ma quella donna non disse nulla, limitandosi a guardare alternativamente Stefano e sua madre.

«Buongiorno, Margherita. Grazie per aver accettato di tenere Stefano. Ecco i suoi vestiti. Ho scritto i suoi orari, cosa gli piace mangiare, l’indirizzo della scuola…»

«Quando torni da questo…» la «nonna» sogghignò, «viaggio di lavoro?» La sua voce era roca, quasi maschile.

«Forse è un uomo travestito», pensò Stefano.

«Tra una settimana, forse prima», rispose la mamma.
Il cuore di Stefano si strinse. La guardò con occhi pieni di dolore e lacrime.

«Non andare via. Mamma, portami con te», tentò un ultimo disperato appiglio, aggrappandosi al suo cappotto.

Le mani della «nonna» gli affondarono nelle spalle. Di colpo, Stefano lasciò andare la mamma, che subito chiuse la porta dietro di sé. Lui iniziò a urlare, a chiamarla, a scuotere la maniglia.

«Non strillare! Mi hai stordito», sbuffò la donna, lasciandolo andare. «Basta con queste scene. Spogliati. Spero che tua madre non si sia dimenticata le tue pantofole, perché non spenderò un centesimo per te. La pensione è misera.» Si allontanò, lasciandolo solo.

Nonostante il caldo, per orgoglio non si tolse il cappotto. Si accovacciò contro la porta, ma presto le gambe gli si addormentarono. Alla fine si sfilò la giacca e la poggiò sul mobiletto. Aprì la borsa e vide le pantofole. Gli ricordarono casa, la mamma, e scoppiò a piangere.

Quando, sfinito, entrò in cucina, «Margherita» era seduta al tavolo a fumare. Stefano la fissò sbalordito: non aveva mai visto una nonna fumare.

«Mi chiamo Margherita. Riesci a dirlo?» Fece un gesto vago. «Chiamami Margò.»

Spense la sigaretta con forza, come se schiacciasse uno scarafaggio, e tossì. Nei suoi polmoni qualcosa gorgogliava.

Quanto tempo trascorse da Margò? Gli sembrò un’eternità. Parlavano poco. Lo portò a scuola un paio di volte, poi andò da solo. Passava le giornate a fumare e guardare la TV.

Un giorno, tornando da scuola, vide la sua valigia nell’ingresso.

«La mamma è tornata?» si illuminò.

«No.»

Il mattino dopo, Margò lo portò in un edificio a due piani, simile a un asilo. Non fece in tempo a leggere l’insegna. Sudò nell’attesa mentre lei parlava con la direttrice.

Poi uscì e se ne andò, senza neanche guardarlo. La direttrice lo prese per mano e lo condusse lungo un corridoio. Voci di bambini uscivano da ogni porta. Salirono al secondo piano, in una stanza con dieci letti.

Gliene indicò uno e se ne andò. Non aveva nemmeno fatto in tempo a orientarsi che entrarono quattro ragazzi. Due erano più grandi di lui.

«Sei il nuovo? Come ti chiami?» chiese il più alto.

«Tua madre ti ha abbandonato o l’hanno investita?» domandò un altro.

«È in viaggio per lavoro», disse Stefano, con una vocina sottile.

«Ah! Conosciamo questi viaggi», risero. «Tua madre si è trovata un altro, e ti ha scaricato qui per non avere impicci.»

«Non è vero, tornerà per me…»

I ragazzi aprirono la sua valigia e ne rovesciarono il contenuto. Poi gli strapparono lo zaino e si divisero vestiti e libri.

Stefano cercò di difendersi, ma era solo contro quattro prepotenti. Lo spinsero, lo presero a botte. La rabbia gli diede coraggio: si lanciò contro uno di loro, sbattendolo contro il muro. Gli altri gli saltarono addosso. Non si sa come sarebbe finita se la custode, zia Lucia, non fosse entrata con una scopa per dividerli.

Di notte, lo coprirono con una coperta e lo picchiarono. Per la paura e l’umiliazione, si bagnò addosso. Il giorno dopo, i ragazzi mostrarono il lenzuolo a tutti, ridendo.

La vita di Stefano nell’istituto divenne un inferno. Rimpianse perfino i giorni con Margò. Combatteva sempre, veniva punito. Si rintanava in angoli bui, piangendo e chiamando la mamma.

Quando crebbe, scappò un paio di volte, ma lo riportarono indietro. Zia Lucia lo compativa e lo lasciava rifugiarsi nel suo ripostiglio.

«Sopporta, tesoro. Passerà. NonAlla fine, capì che il perdono non era per sua madre, ma per sé stesso, perché solo così poté smettere di portare quel peso nel cuore.

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