Mamma, resta con me

**Mamma, non andare via**

Dopo cena, la mamma si sedette accanto a me, Marco, settenne, e mi circondò le spalle con un braccio. Mi irrigidii. L’ultima volta che l’aveva fatto, mi aveva annunciato che sarebbe partita per lavoro qualche giorno, e io sarei andato a stare dalla sua amica, zia Carla. Il problema era sua figlia, Martina, una ragazzina prepotente e arrogante che mi prendeva in giro chiamandomi “nanerottolo”.

“Devi ripartire per lavoro? Non voglio stare da zia Carla. Martina è odiosa,” dissi, guardandola con occhi imploranti.

Mamma sorrise e mi accarezzò i capelli, corti e ribelli. Mi feci coraggio.

“Mamma, per favore, portami con te,” la supplicai.

“Non posso. Sarò occupata tutto il giorno. Cosa faresti da solo?” Si alzò dal divano e cominciò a camminare avanti e indietro, nervosa.

“Tu stessa hai detto che sono grande. Non voglio stare con Martina. Posso restare a casa da solo?”

“Basta lamentarti!” sbottò. “Sei troppo piccolo per vivere da solo. E se succedesse qualcosa? Se non vuoi andare da zia Carla, ti porto da nonna.”

“A Bologna?” chiesi, illuminandomi di speranza.

“No, ti porto dall’altra nonna, la madre di tuo padre.”

Per me fu una rivelazione: non sapevo di avere un’altra nonna. Non l’avevo mai vista.

“Non voglio,” dissi, per cautela.

“Non ti ho chiesto cosa vuoi. Prendi i libri e quello che vuoi portare con te. Io preparerò le tue cose.”

Il mio cuore iniziò a battere forte. La volta precedente, quando mi aveva portato da zia Carla, non mi aveva fatto portare nulla. Questo significava che sarebbe stata via a lungo.

“Non voglio andare da nessuna parte con le valigie. Posso venire con te?” cominciai a piagnucolare.

“Smettila! Gli uomini non piangono.”

“Ma io sono un bambino, non un uomo,” singhiozzai.

La mattina dopo mi vestii lentamente, sperando che cambiasse idea, che perdesse la pazienza e mi lasciasse a casa. Invece mi urlò che il taxi li stava aspettando e che, per colpa mia, non avrebbero fatto colazione.

Attraversammo la città in taxi, poi prendemmo l’ascensore. Guardavo i numeri sul display salire, finché non ci fermammo all’undicesimo piano. Le porte si aprirono, e mamma mi spinse verso una porta di ferro.

Ad aprirci non fu una donna dall’aspetto di nonna, ma una signora avvolta in un lungo accappatoio rosso con ricami dorati, i capelli sollevati in una pettinatura esagerata. Mi guardò con disgusto, come se fossi un topo. Mamma urlava sempre alla vista dei topi. Lei non urlò, ma il suo sguardo non prometteva nulla di buono.

Di solito gli adulti, quando mi vedevano, dicevano: “Ma guarda chi c’è!” o “Che bel bambino!” Lei rimase in silenzio, alternando lo sguardo tra me e mamma.

“Buongiorno, Margherita. Grazie per aver accettato di prendere Marco. Ho scritto tutto: il suo orario, cosa gli piace mangiare, l’indirizzo della scuola…”

“Quando tornerai da questo tuo…” fece una smorfia, “viaggio di lavoro?” La sua voce era bassa e roca, come quella di un uomo.

“Magari è un uomo travestito,” pensai.

“Tra una settimana, forse prima,” rispose mamma.

Il mio cuore sprofondò. La guardai con occhi pieni di lacrime, rancore e stupore.

“Non andare via. Mamma, portami con te,” cercai di aggrapparmi al suo cappotto.

Le mani della “nonna” mi afferrarono le spalle con forza. Per la sorpresa, lasciai andare il cappotto. Mamma chiuse la porta dietro di sé. Cominciai a urlare, a chiamarla, a scuotere la maniglia.

“Basta strillare!” La “nonna” mi lasciò andare. “Finiscila con queste scenate. Spogliati. Spero che tua madre abbia messo le tue pantofole, perché non spenderò un euro per te. Con la misera pensione che ho…”

Mi lasciò solo in ingresso. Faceva caldo, ma per testardaggine non mi spogliavo. Mi accoccolai contro la porta, ma le gambe si addormentarono presto. Alla fine mi alzai e mi levai la giacca. Non riuscivo a raggiungere l’attaccapanni, così la misi sulla cassapanca. Aprii la borsa e vidi le mie pantofole. Mi ricordarono casa, mamma, e scoppiai in lacrime.

Quando entrai in cucina, la “nonna” era seduta al tavolo a fumare. La fissai stupito: non avevo mai visto una nonna fumare.

“Mi chiamo Margherita. Riesci a dirlo?” Fece un gesto con la mano. “Chiamami solo Margò.”

Spense la sigaretta nel posacenere come se stesse schiacciando uno scarafaggio, poi tossì. Nei suoi polmoni qualcosa gorgogliava.

Quanto tempo passai da Margò? Mi sembrò un’eternità. Parlavamo poco. Un paio di volte mi accompagnò a scuola, poi iniziai ad andarci da solo. Passava le giornate a fumare e guardare la televisione.

Un giorno tornai da scuola e trovai nella borsa i miei vestiti.

“È tornata mamma?” chiesi, speranzoso.

“No.”

Il mattino dopo, Margò mi portò in un edificio a due piani che sembrava un enorme asilo. Non ebbi il tempo di leggere l’insegna all’ingresso. Sudai freddo, seduto in corridoio, mentre lei parlava con la direttrice.

Poi uscì e se ne andò senza nemmeno guardarmi. La direttrice mi prese per mano e mi condusse lungo un corridoio interminabile. Da ogni porta uscivano voci di bambini. Salimmo al secondo piano ed entrammo in una grande stanza con dieci letti in fila.

La direttrice mi indicò il mio letto e se ne andò. Non feci in tempo a sistemarmi che entrarono quattro ragazzi. Due erano molto più grandi di me. Quattro paia di occhi mi fissarono.

“Nuovo, come ti chiami?” chiese il più alto.

“Hanno tolto i diritti a tua madre, o è morta?” domandò un altro.

“È in viaggio per lavoro,” cinguettai.

“Ah! Quanti ne abbiamo sentiti di questi viaggi!” Risero. “Tua madre ha trovato un altro uomo e ti ha mollato qui per non avere scocciatori.”

“Non è vero! Verrà a prendermi!”

Aprirono la mia borsa e rovesciarono tutto per terra. Poi mi strapparono lo zaino. Divisero tra loro i miei vestiti e i libri.

Cercai di riprenderli, ma come avrei potuto contro quattro ragazzi più grandi? Mi spinsero, mi allontanarono. La rabbia mi diede coraggio: mi scagliai con la testa nella pancia di uno e lo buttai contro il muro. Gli altri mi saltarono addosso. Chissà come sarebbe finita, se non fosse entrata la donna delle pulizie, zia Rosetta, che li cacciò via con una scopa.

Quella notte mi coprirono la testa con la coperta e mi picchiarono. Per la vergogna, la paura e il dolore, mi feci la pipì addosso. Il giorno dopo i ragazzi passarono il mio lenzuolo per tutte le camere ridendo.

La mia vita nell’orfanotrofio divenne un inferno. Vivere con Margò mi sembrava ormai un paradiso. Combattevo sempre, venivo punito. Mi rintanavo in angoliEppure, con il tempo, trovai la forza perEppure, con il tempo, trovai la forza per perdonare e capire che la vita, a volte, spezza anche i legami più sacri, ma non deve spezzare il nostro cuore.

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