Mesi dopo, Stanislao era diventato parte indispensabile della casa di Anna.
Stanislao era seduto su una panchina gelata, in mezzo a un parco silenzioso appena fuori Mantova. Il vento tagliente gli graffiava il viso, e la neve cadeva lenta come cenere da un fuoco che non finiva mai. Aveva le mani nascoste sotto una giacca logora e lanima in frantumi. Non capiva come fosse arrivato a quel punto. Non quella sera. Non così.
Poche ore prima, era ancora nella sua casa. *La sua casa*. Quella che aveva costruito con le sue mani decenni prima, mattone dopo mattone, mentre sua moglie preparava una minestra calda in cucina e suo figlio giocava con i cubi di legno. Tutto questo ormai non esisteva più.
Adesso le pareti erano coperte da quadri che non riconosceva, gli odori erano diversi, e il freddo non veniva solo dallinverno, ma dagli sguardi che lo trafiggevano come coltelli.
Papà, Cecilia e io stiamo bene, ma tu non puoi più restare qui disse suo figlio, Matteo, senza un briciolo di rimorso nella voce. Non sei più giovane. Dovresti cercare una casa di riposo. O qualcosa di piccolo. Con la tua pensione, puoi vivere tranquillo.
Ma questa è casa mia balbettò Stanislao, sentendo il cuore piombargli ai piedi.
Me lhai ceduta tu ribatté Matteo, come se parlasse di una bolletta. È tutto in regola. Legalmente non è più tua.
E così, finì lì.
Stanislao non urlò. Non pianse. Annuì soltanto, silenzioso, come un bambino rimproverato per qualcosa che non capisce. Prese il cappotto, il suo vecchio berretto e una borsa con quel poco che gli restava. Uscì dalla porta senza voltarsi, sapendo, nel profondo, che quello era anche la fine di qualcosa di più grande: la sua famiglia.
Ora era lì, solo, con il corpo intirizzito e lanima congelata. Non sapeva nemmeno che ora fosse. Il parco era deserto. Nessuno cammina quando il freddo ti entra nelle ossa. Eppure, lui era ancora lì, come se sperasse che la neve lo coprisse completamente e lo facesse sparire.
Poi, lo sentì.
Un tocco, leggero, caldo.
Aprì gli occhi, stupito, e vide davanti a sé un cane. Un pastore tedesco, enorme, con il pelo coperto di neve e due occhi scuri che sembravano capire troppo.
Lanimale lo fissava. Non abbaiò. Non si mosse. Allungò solo il muso e gli sfiorò la mano con una dolcezza disarmante.
Da dove sei spuntato, amico? mormorò Stanislao, la voce tremante.
Il cane scodinzolò, fece mezzo giro e fece qualche passo. Poi si fermò, lo guardò di nuovo, come per dire: Seguimi.
E Stanislao lo fece.
Perché non aveva più niente da perdere.
Camminarono per diversi minuti. Il cane non si allontanava troppo, voltandosi ogni tanto per assicurarsi che lo seguisse. Attraversarono vicoli silenziosi, lampioni spenti, case dove il calore familiare sembrava un lusso irraggiungibile.
Finché, alla fine, arrivarono davanti a una casetta, con una staccionata di legno e una luce calda accesa sul portico. Prima che potesse reagire, la porta si aprì.
Una donna, sulla sessantina, con i capelli raccolti in una crocchia e uno scaldashalle sulle spalle, apparve sulla soglia.
Boris! Sei scappato di nuovo, monello! esclamò vedendo il cane. E adesso cosa hai portato?
La sua voce si interruppe quando vide Stanislao, curvo, il viso arrossato dal freddo e le labbra violacee.
Santo cielo! Rischierai di congelarti! Entra, ti prego!
Stanislao cercò di parlare, ma riuscì solo a emettere un suono confuso.
La donna non aspettò una risposta. Uscì, lo prese saldamente per il braccio e lo trascinò dentro. Il calore lo avvolse come una coperta. Laria profumava di caffè, di cannella, di vita.
Siediti, su. Ti porto qualcosa di caldo.
Lui si lasciò cadere su una sedia, tremante. Il cane, Boris, si sdraiò ai suoi piedi, come se fosse la loro solita routine.
Poco dopo, la donna tornò con un vassoio. Due tazze fumanti e piadine dorate.
Mi chiamo Anna disse con un sorriso caldo. E tu?
Stanislao.
Piacere, Stanislao. Il mio Boris non porta mai estranei in casa. Devi essere speciale.
Lui sorrise, debolmente.
Non so come ringraziarti
Non cè bisogno. Ma vorrei sapere: cosa ci fa un uomo come te in giro in una notte così?
Stanislao esitò. Ma negli occhi di Anna cercava comprensione, non giudizio. E così parlò.
Le raccontò tutto. Dalla casa costruita con le sue mani, al momento in cui suo figlio lo aveva cacciato. Le parlò del dolore, dellabbandono, del tradimento che gli faceva più male del gelo. Parlò finché non ebbe più voce.
Quando finì, la stanza rimase in silenzio. Solo il crepitio del fuoco nel camino riempiva laria.
Anna lo fissò con dolcezza.
Resta con me disse con voce tranquilla. Vivo da sola. Solo io e Boris. Mi farebbe bene avere qualcuno con cui chiacchierare. Non devi dormire per strada. Non stanotte. Non finché ho un letto in più.
Lui la guardò incredulo. Nessuno gli aveva mai offerto qualcosa di così generoso da quando sua moglie era morta.
Dici davvero?
Davvero rispose, posando una mano sulla sua. Dimmi di sì.
Boris alzò la testa, lo fissò e, come prima, gli sfiorò la mano con il muso.
E allora, Stanislao sentì qualcosa che credeva perduto: la speranza.
Sì sussurrò. Resto.
Anna sorrise, e Boris riappoggiò la testa sulle zampe, soddisfatto.
Quella notte, Stanislao dormì in un letto caldo. Non sognò la neve o labbandono. Sognò una casa, un cane saggio e una donna dal cuore buono.
E capì una cosa molto semplice ma profonda: a volte, la famiglia non è nel sangue, ma nei gesti di chi decide di vederti, ascoltarti e aprirti la porta.