Mettere il papà in una casa di riposo? Mai nella vita! Così la figlia di Ivan si ribellò, ma il passato non le dava pace: tra sensi di colpa e vecchie ferite, Liza compie la sua scelta più difficile

– Ma che cosa stai dicendo, papà? Una casa di riposo? Io non ci penso proprio! Non mi muovo da casa mia! Il padre di Elisabetta Conti lancia una tazza verso la figlia, mirando dritto alla testa. Lei, con un movimento ormai automatico, si sposta per evitare il colpo.

Sicuramente tutto questo non può andare avanti così ancora a lungo. Prima o poi lui troverà il modo di farle del male, e lei non saprà neanche da dove arriverà il prossimo colpo basso. Eppure, mentre prepara i documenti per il trasferimento del padre nella casa di riposo, Elisabetta sente solo un profondo senso di colpa. Nonostante tutto quello che sta facendo per lui, considerando come è stata trattata in passato, è anche troppo.

Quando arriva il momento di salire in macchina, il padre urla, si ribella, lancia imprecazioni a destra e a manca contro chiunque sia coinvolto in questo trasferimento.

Lisi guarda dalla finestra la macchina che si allontana. Una scena che ha già vissuto da bambina, senza sapere come sarebbe andata a finire la sua vita.

Elisabetta è figlia unica. Sua madre non ha mai voluto altri figli: il marito era un vero despota domestico, pronto a trasformare ogni giorno della moglie in un inferno.

Il padre di Lisi, Giovanni Conti, era già un uomo maturo quando è nata la figlia. Aveva ben passato i quarant’anni.

Giovanni si era sposato solo per convenienza. Il matrimonio per amore o per tramandare il cognome non faceva parte dei suoi progetti. Non aveva mai amato nessuno più di sé stesso. Per fare carriera gli serviva però l’immagine del marito perfetto; così, tra le sue conoscenze, scelse Maria, una giovane studentessa di istituto tecnico, figlia di semplici operai in una fabbrica. La famiglia della ragazza trovava onorevole imparentarsi con un uomo tanto importante. Chiedere il parere alla sposa non serviva: nessuno si preoccupava dei suoi desideri. Organizzarono un matrimonio sontuoso, senza la presenza dei genitori della sposa, considerati troppo umili per la cerimonia.

Subito dopo le nozze, la giovane Maria si trasferì nella casa del marito.

Per renderla più rapidamente una “signora”, Giovanni le affiancò una vecchia conoscenza, incaricata di insegnarle modi, riservatezza e larte di vedere e non vedere secondo convenienza.

– Allora, comè andata la giornata? chiedeva Giovanni tornando a casa e accomodandosi in poltrona.

– Bene. Ho imparato le buone maniere a tavola e ho cominciato a studiare inglese. La prima regola che Maria apprende fu: mai dare motivi di lamentela al marito.

– Tutto qui? E la casa? Chi ci ha pensato?

– Io, insieme alla cuoca. Abbiamo fatto il menu settimanale, ho fatto la spesa e ho riordinato.

– Va bene, per oggi può bastare. Ricordati però: mani sempre pulite, aspetto curato. Non voglio mica una contadina in casa. Se ti comporti bene, magari un giorno ti prendo una macchina con autista e una cameriera. Ma non ora, non te lo sei guadagnato.

Eppure, per quanto Maria si sforzasse, i giorni tranquilli erano rari. Il marito rientrava spesso tardi, arrabbiato e nervoso. Lunica su cui poteva sfogarsi era la moglie. La servitù, se maltrattata, poteva andarsene o spifferare qualche segreto di famiglia. Maria, invece, non aveva a chi chiedere aiuto né dove andare.

La prima volta che Giovanni le diede uno schiaffo, era passato appena un mese dal matrimonio. Non per un motivo preciso, ma solo per fare capire “chi comanda”. Col tempo, le botte diventarono più frequenti, ma Giovanni lo faceva in modo che non restassero segni evidenti. Maria nascondeva i lividi sotto i vestiti, regalando sempre un sorriso ai colleghi e amici di suo marito durante le visite di cortesia.

Passò il primo anno di matrimonio. Gli amici e colleghi iniziarono a far capire a Giovanni che la giovane coppia doveva mettere su famiglia.

– Giovanni, ma quando fate un bambino? Cosè, tua moglie è difettosa? Portala da qualche bravo medico, dai retta.

– Non abbiamo ancora deciso, lei deve finire gli studi rispondeva asciutto Giovanni.

– Ma agli studi pensi? Le donne devono stare in casa, mica a scuola. Sbrigatevi, è ora di fare figli. Dai, posso suggerire dei bravi medici.

Da quel momento per Maria cominciò un periodo di controlli ossessivi e visite mediche. Giovanni smise persino di malmenarla per paura che i medici notassero i lividi.

Dopo qualche mese, nessun medico trovò problemi in Maria. Era sana e pronta a diventare madre. La vera questione, allora, era Giovanni. Quasi con imbarazzo, un dottore gli consigliò di fare dei controlli.

– Io? Sei matto? Con due chiamate posso farti finire a lavorare come veterinario in qualche cascina sperduta.

– Anche così, la sua situazione non cambierà comunque rispose pacato il dottore, abituato ad avere a che fare con persone influenti.

– E allora? fece Giovanni, contrariato.

– Intanto, inizi con gli esami.

Dopo qualche settimana, completati tutti gli accertamenti, la diagnosi fu chiara: Giovanni aveva una fertilità molto bassa. Restava solo da sperare in un miracolo.

Le continue domande dei colleghi e la vista della giovane moglie lo facevano infuriare. Ormai, nemmeno picchiare la moglie aveva senso: Maria aveva smesso di piangere. Allinizio almeno tremava, poi si era fatta di pietra.

Per svagarsi, Giovanni si trovò unamante, distrazione che durò un po.

Passarono altri due anni e mezzo prima che arrivasse la gravidanza tanto attesa. Nacque Elisabetta, identica al padre. Eppure Giovanni non mostrò mai affetto. A crescere la bambina ci pensavano la madre e la tata; lui poteva tranquillamente non vederla per settimane senza accorgersene.

Più Lisi cresceva, più irritava il padre, che faticava sempre di più a trattenersi. La prima volta che la colpì aveva cinque anni: la bimba faceva i capricci mentre Giovanni era appena tornato da una riunione problematica. Alla sua ennesima richiesta, luomo la spinse tanto forte che attraversò mezza stanza, finendo contro il muro. Dal terrore, la piccola non pianse neppure, mentre il padre si stendeva sul divano e accendeva la televisione.

Lisi imparò la lezione e cercò di non provocare più il padre. Ma ormai lui non si poneva freni: poteva insultarla, darle uno schiaffo o umiliarla, anche davanti agli ospiti. Ormai sufficientemente influente, non sentiva più il bisogno di mantenere le apparenze. Amava svergognare Lisi pubblicamente, assaporando il suo imbarazzo e le lacrime trattenute.

– Giovanni, ho sentito che vostra figlia suona il violino benissimo. Può esibirsi per noi?

– Una violinista? Ma questa qui a malapena sa che lato dello strumento impugnare! Se vi volete far del male, provate a chiederlo. Lisi! Non senti? Prendi quella chitarra e suona qualcosa agli ospiti!

Lisi, rossa per la vergogna, prendeva lo strumento e si esibiva tremante. Aveva il terrore della scena, ma del padre ancora di più.

La paura di esibirsi lha accompagnata per tutta la vita. Nonostante fosse una musicista promettente, non ha mai suonato più dopo la scuola di musica.

Allora si domandava se tutte le famiglie fossero come la sua. Guardava nelle fiabe quelle famiglie felici e si chiedeva perché proprio a lei fosse toccato un padre che sembrava odiare il mondo.

La madre non fu mai un modello di felicità. Incapace di amare una figlia avuta da un marito tiranno, morì quando Lisi aveva tredici anni. Ufficialmente un incidente in macchina; cosa fosse successo davvero, Lisi non lo ha mai saputo. Da allora si chiuse ancora di più in sé stessa.

Finito il liceo, Elisabetta si iscrive all’università come voleva suo padre. Fu una delle ultime decisioni che lui prese per lei. Intanto Giovanni aveva accumulato grane su grane al lavoro, riducendo i rapporti con la figlia e perdendo quasi tutto il suo potere economico. Gran parte del patrimonio se n’era andato per evitare di finire in galera, dopo i numerosi reati commessi quando era ai vertici. Fortunatamente riuscì a far dimenticare le sue vicende giudiziarie e si ritirò in una casa fuori Roma. Elisabetta non andava mai a trovarlo: di che parlare? Per ascoltare i suoi insulti? No, grazie.

Da solo, Giovanni perse la possibilità di sfogare il suo veleno, e la sua salute mentale peggiorò. I vicini chiamavano spesso Elisabetta, raccontando che il padre era fuori controllo. Alla fine, spremendo tutto il suo coraggio, decise di portare il padre da lei.

Con la possibilità di tormentare la figlia ogni giorno, Giovanni parve quasi rifiorire. Insulti, urla, minacce, oggetti rotti: era diventato il suo passatempo preferito. Elisabetta lo rinchiuse in una sola stanza con una serratura, per limitare i danni. Ma nemmeno così migliorò. Col progredire della demenza senile, Elisabetta fu costretta a prendere – con un dolore terribile – la decisione di portarlo in una casa di riposo.

Una famiglia tutta sua, Elisabetta non lha mai creata. Insicura, con una psiche segnata, aveva paura degli altri. Al lavoro non aveva amici, teneva tutti a distanza. Ma quando arrivò il momento di scegliere la casa di riposo, non riuscì a liberarsi dalla vergogna.

Lasciarlo a casa sarebbe stato pericoloso: i medici confermavano la demenza, era incapace di intendere e di volere. Eppure la sua rabbia verso la figlia era rimasta, anche se ormai non la riconosceva più.

Elisabetta ha visitato tutte le strutture di Roma, scegliendo quella che sembrava la migliore, anche se costava tantissimo. Il costo mensile era enorme, superiore a metà stipendio, tanto che dovette cercare anche dei lavoretti extra per poter arrivare alla fine del mese.

Nei giorni successivi alla partenza del padre, Elisabetta si sente svuotata. Si ricorda quando, da piccola, lei e sua madre scapparono di casa per la prima e unica volta. Ma Giovanni le riportò entrambe indietro e poco dopo la madre morì.

Anche oggi, ogni volta che visita il padre, Elisabetta piange per pietà e per colpa, come se queste fossero le uniche emozioni che è stata in grado di imparare dai suoi genitori.

Oltre a questo costante senso di oppressione, Elisabetta sente che la salute comincia a cedere.

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