— Questa è casa mia — mamma e i parenti si erano opposti all’idea che la figlia cacciasse la cugina incinta
«Me l’avete regalato voi l’appartamento!»
— Non capisci? È famiglia! Come puoi trattare così tua nipote? Non ha dove andare!
Giulia sedeva in cucina, stringendo il telefono. La voce della madre, supplichevole e accusatoria insieme, le risuonava nell’orecchio. Tipico: persino quando chiedeva un favore, sapeva farti sentire in colpa.
— Mamma, non mi dispiace aiutare, ma… — esitò, cercando le parole. — Martina sta da me da otto mesi. Otto! Ricordi quando zia Valeria parlava di «qualche settimana, giusto il tempo di trovare lavoro»?
— Be’, i tempi sono difficili, non è facile…
— Non cerca nemmeno! — sentì l’irritazione salirle come un’onda. — Ieri è stata tre ore in bagno a farsi maschere per i capelli. Poi ha maratonato serie tv. E…
— Giulietta, ma è incinta…
— Lo ha scoperto un mese fa! E prima cosa faceva?
Un silenzio pesante calò sulla linea. Sentì il respiro affannoso della madre. Quel sospiro che significava: «Che figlia senza cuore, non ti ho educata così».
— Mamma, è casa mia. Avete comprato la quota di zia Valeria proprio per me, ricordi?
— Tecnicamente — la voce si fece più tagliente — l’appartamento è nostro. Ti abbiamo solo permesso di viverci.
Giulia chiuse gli occhi. Ecco, ci risiamo.
— Credevo fosse un regalo. Per la laurea.
— Certo, un regalo! Ma sai che in famiglia bisogna…
— Bisogna cosa? — la interruppe. — Sopportare che Martina mangi la mia pasta, usi i miei cosmetici e porti il fidanzato quando non ci sono? Quello stesso da cui è rimasta incinta, tra l’altro.
— Giulia! — la voce materna si tinse di acciaio. — Zia Valeria ha fatto tanto per noi! Quando papà stava male, chi ci aiutò? Chi ti accudiva mentre io lavoravo giorno e notte?
Sospirò. Quella storia l’aveva sentita cento volte. Il debito verso zia Valeria, mai estinto.
— Le sono grata, davvero. Ma non significa che devo…
— Zia ha chiamato ieri — la interruppe di nuovo. — Piangeva. Dice che tormenti Martina. Trovi da ridire su tutto.
Sbuffò.
— Da ridire? Ha preso il mio maglione nuovo senza chiedere e ci ha versato il succo! Poi: «Oh, non te la prenderai, siamo parenti». Neanche una scusa!
— Santo cielo, è solo un maglione…
— Non è il maglione! — la voce le si incrinò. — È il rispetto. I confini. Entrare in casa e sentirsi un ospite.
Nuova pausa. Poi la madre sussurrò con dolcezza tossica:
— La nonna si sarebbe rattristata, sentendoti parlare così. Per lei la famiglia era…
— Basta — la interruppe. — Non tirarla in ballo ogni volta che vuoi convincermi.
— Ma è vero! Questa casa viene dall’eredità della nonna. Voleva che…
— Che cosa? Che vivessi con Martina a vita? Sopportassi i suoi capriczi? Che…
Un bip annunciò una chiamata. Zia Valeria. Ovviamente.
— Mamma, mi chiama zia. Vuole dirmi di persona quanto sono cattiva.
— Rispondi. Sii civile.
— Va bene — sospirò. — Richiamerò dopo.
Passò alla chiamata, preparandosi al rimprovero.
— Pronto, zia.
— Giulietta! — voce eccessivamente allegra. — Come stai, tesoro?
«Tesoro». Giulia rabbrividì. Quel vezzeggiativo precedeva sempre una richiesta.
— Bene — rispose secca.
— Martina dice che avete… incomprensioni?
Roteò gli occhi. Incomprensioni. Certo.
— Zia, quando avete proposto che stesse da me, parlavate di qualche settimana. Un mese al massimo.
— Oh, ma che conti fai! — una risatina nervosa. — I parenti non tengono il cronometro!
— E cosa fanno i parenti? — la rabbia ribolliva. — Entrano senza permesso? Usano le tue cose? Portano estranei in casa?
— Ma… Martina è espansiva, è abituata…
— Abituata che gli altri risolvano i suoi problemi. Mamma e papà hanno comprato la vostra quota. Era un regalo per me.
— Non proprio — il tono si gelò. — La casa era della nonna. Eredità comune. Io e tua madre abbiamo solo…
— Accettato di vendere la vostra parte ai miei genitori — tagliò corto. — Pagata al prezzo di mercato.
— Soldi, soldi! — voce stridula. — Pensi solo a quelli! E Martina incinta? Dove va? In strada?
— C’è il fidanzato. Il padre, no?
— Irresponsabile! Senza un soldo! Scappato a Milano appena saputo della gravidanza.
«Chissà perché», pensò. Disse:
— Zia, avete tre camere. Voi e zio Corrado siete in due. Perché non sta con voi?
Pausa. Immaginò zia arrovellarsi.
— È… scomodo. Zio lavora da casa, ha bisogno di silenzio. E poi, voi due siete sempre state come sorelle. Quando nascerà il piccolo, sarà un’esperienza bellissima per te!
«Come sorelle». Sorrise amara. Martina, la «spensierata» a cui tutto era concesso. Lei, la «responsabile» che doveva cedere.
— Zia, non ce la faccio più. Oggi parlerò con Martina. Deve trovarsi un’altra sistemazione.
— Cosa?! — urlo stridulo. — Non puoi! Lo stress le farà male! Vuoi che perda il bambino?
Trattenne a stento gli insulti. L’arma finale: la colpa sulla coscienza.
— Non la caccio via subito. Le do un mese per…
— Chiamo tua madre! — l’interruppe. — Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te!
La linea morì. Appoggiò il telefono sul tavolo. Le mani tremavano.
La porta sbatté. Taccoletti nel corridoio.
— Giuli! — voce zuccherosa. — Sei qui? Sai chi ho incontrato? Sara, quella delle superiori! Sposata con un imprenditore tech! Mi ha mostrato l’anello, quasi accecata!
Martina irruppe in cucina. Abbronzata, unghie nuove, jeans firmati. Niente della donna in difficoltà.
— Senti, ho pensato… — si lasciò cadere sulla sedia. — Forse spostiamo il divano? Vicino alla finestra sta meglio. E quando nasce il piccolo, dovremo organizzare l’angolo nursery…
Giulia la fissò. L’ultimo filo di pazienza si spezzò.
— Martina, dobbiamo parlare.
— Oh, non ora — fece una smorfia. — Ho un emicrania tremenda. Questi ormoni! Meglio che mi sdraio.
Si alzò per uscire.
— Martina — alzò la voce. — Devi andartene.
Si bloccò sulla soglia.
— Cosa?
— Hai un mese per trovare casa.
Fissò sbigottita, come se avesse parlato in aramaico.
— Scherzi?
— No. Sono seria.
Il volto di Martina si contorse.
— Non puoi! La casa era della nonna! Anche io ho diritto di stare qui!
— No. I miei hanno comprato la quota. Legalmente è loro.
— Fanculo la legalità! — urlò. — Siamo famiglia! Sono incinta! Non ho dove andare!
— Hai i tuoi genitori. Il padre. Amici.
— Chiamo mamma! — estrasse il telefono. — Ti farà ragionare!
— Inutile — scosse la testa. — Ha già chiamato. Pure la mamma.
— E allora?
— Niente. La decisione è presa.
Martina la fissò con odio.
— Mi cacci? Vedrai, mamma e zia Isabella sistemeranno tutto. Te ne pentirai!
Sparì sbattendo la porta.
Giulia guardò fuori dalla finestra. Invece del senso di colpa, provò sollievo. E stanchezza. Stanchezza del gioco delle «tradizioni familiari», sempre a senso unico.
Il telefono vibrò. Messaggio della madre: «Zia Valeria è fuori di sé. Cosa hai combinato?»
Non rispose. Aprì il browser: «Affitti Roma».
Tre mesi dopo. Giulia sorseggiava un cappuccino in un bar di Piazza Navona, osservando la pioggia romana. Di fronte, Marco — il fidanzato conosciuto a Milano, trasferito prima di lei.
— Allora, rimpianti?
Scosse la testa.
— Solo di non averlo fatto prima.
Il telefono vibrò. Chiamata del padre.
— Ciao, papà.
— Ciao, piccola. Novità: abbiamo venduto la casa.
Trattenne il respiro.
— Quella della nonna? Ma…
— Martina è tornata dai suoi — ridacchiò. — Dopo che te ne sei andata, ha provato a restare, ma… Basta. I soldi li versiamo a te.
— A me?
— Sì — la voce sorrideva. — Era il tuo regalo di laurea. Io e tua madre… ci siamo fatti influenzare. Scusaci.
Gli occhi le bruciarono.
— Papà, non so cosa dire…
— Non dire nulla. Sii felice. E… siamo orgogliosi. Di come hai tenuto duro. Anche quando non ti abbiamo sostenuto.
Riaccolse. Marco le prese la mano.
— Tutto bene?
— Credo di essere diventata adulta — sussurrò. — Davvero.
Fuori, la pioggia lavava via il passato, aprendo spazio a una vita nuova. Una vita in cui decideva lei chi far entrare in casa. E nel cuore.