Mi chiamo. Sono nato nel 1969 e morto nel 2010.

Mi chiamo Alessandro Botticelli. Sono nato nel 1969 e sono morto nel 2010. Ho vissuto per quarantun anni e due mesi. O meglio, ho vissuto pienamente solo otto mesi, mentre per trentanove anni e mezzo sono esistito in un corpo senza vita, fino al giorno in cui ho scoperto di avere il cancro. Ora che sono morto, voglio avvertire coloro che leggeranno queste righe affinché non passino la maggior parte della loro vita in modo altrettanto inutile come ho fatto io.

Sono nato nel lontano 1969. Sono cresciuto e ho vissuto “come tutti”. Questa espressione inquietante spesso denota una vita priva di significato. Non ero né meglio né peggio di tutti i miei conoscenti. Ho prestato servizio militare, mi sono laureato in ingegneria edile, mi sono sposato e negli anni Novanta ho iniziato un’attività commerciale. Sognavo di avere una casa tutta mia. Sapevo come progettare e ne ero competente. Inizialmente ho avviato una piccola azienda di vendita di materiali edili, poi l’attività ha preso piede e siamo cresciuti fino a diventare un’importante impresa di costruzioni.

Mentre lavoravo, nacque mia figlia Chiara. Mia moglie non lavorava, si occupava di tutte le faccende domestiche. Sapete che profumo ha il corpo di un bambino piccolo? Dicono che questo odore sia unico, impossibile da descrivere o paragonare a qualcosa. Ebbene, io questo profumo non lo conosco. Prendevo in braccio mia figlia solo saltuariamente, giusto per metterla nel passeggino e portarla al parco. Mentre passeggiavamo, nella mia mente calcolavo budget e pensavo a cosa comprare e come vendere al meglio. Così non ho notato quando mia figlia ha iniziato a camminare, ha detto la prima parola o ha imparato a leggere e scrivere. Non avevo tempo. Avevo già iniziato la costruzione della casa secondo un progetto personalizzato. Oltre alla casa, in quel terreno avevo pianificato di creare una splendida area parco con panchine, un giardino di pietre, una fontana e alberi da giardino, in modo da poter passeggiare con la famiglia, sedermi sul prato verde, godendo del canto degli uccelli e sorseggiare caffè avvolto in una coperta quando l’autunno sarebbe arrivato con il suo freddo… Così sognavo. Ma non era destino che accadesse, perché sono morto.

Anche quando stavamo gettando le fondamenta della casa, mia figlia iniziava la scuola. Non potei accompagnarla il primo giorno, perché avevo un importante incontro con gli appaltatori. Quando stavamo costruendo i muri della casa, Chiara veniva da me a chiedere aiuto con i compiti. Le davo un bacio sulla fronte e la mandavo dalla mamma, poiché ero troppo occupato con i miei calcoli.

Con mia moglie parlavo raramente perché… dovevo lavorare. Schivavo le sue richieste di fare una passeggiata insieme con delle scuse, e alla fine smise di chiedermelo. Anche in vacanza, quando avremmo potuto stare insieme, non mi staccavo mai dal computer, controllavo i budget, tenevo riunioni online e mi preparavo per una vita felice che non avrei mai vissuto. Di fatto, non vivevo: sognavo un futuro in cui avrei vissuto davvero.

Mi svegliai solo quando mi ruppi un braccio mentre lavoravo nel giardino, e l’incidente non era giustificato da particolari sforzi. Mi misero un gesso, ma la causa della frattura non era chiara. Facendomi visitare, scoprii che si trattava di metastasi dal fegato. Gli esami mostrarono che erano presenti ovunque e non si poteva parlare di operazione. Tutti i medici concordavano che sarei morto presto, ma non erano unanimi su quando sarebbe successo. All’inizio non ci credevo, poi cadde in una tale disperazione che avrei ringraziato chiunque mi avesse sparato per porre fine a tutto. Poco dopo… mi rassegnai e accettai che me ne stavo andando. E proprio allora mi svegliai…

Guardai il mondo con stupore e meraviglia, scoprendo una vita vibrante che prima ignoravo del tutto. Rimasi sbalordito dal disegno invernale sul vetro della finestra. Non riuscivo a staccarmi dal suo intricato motivo. Quando posai dei semi di girasole sul davanzale, vidi le cince per la prima volta, probabilmente, nella mia vita. Si avvicinavano, prendevano un seme e volavano via per sgusciarlo su un ramo vicino, tranquillamente, a differenza dei passeri che si azzuffano per appropriarsi di più cibo. Avevo ancora poco tempo a disposizione e cominciai a vivere avidamente.

Presi mia moglie per mano e uscimmo a passeggiare. Mio Dio! Che sensazione straordinaria avere la mano della persona amata nella propria, camminare sentendo il suo calore e non volere nient’altro. Come ho potuto non capire questo prima!

Mia figlia… Entrai nella sua stanza e la abbracciai per la prima volta davvero. No, naturalmente l’avevo abbracciata prima, ma erano tocchi superficiali che non sentivo davvero. Adesso, per la prima volta nella mia vita, sentii il suo amore. Il suo tenero cuoricino era colmo di amore e devozione. Stringevo Chiara per la vita sottile, poggiai la testa sulla sua spalla scoppiando in lacrime come un bambino. Non ricordo quanto tempo sia passato, ma lei rimase lì immobile, abbracciandomi forte.

Un nuovo mondo si aprì davanti a me. L’autunno mi offriva i suoi profumi. Le foglie accartocciate degli aceri sapevano di estate passata. Affascinavano per la loro bellezza le gocce di rugiada mattutina, in cui si riflettevano i primi raggi del sole. Gli stormi di uccelli si riunivano sui rami spogli degli alberi autunnali parlando misteriosamente in una lingua incomprensibile. Sentivo che, come me, temevano di volare verso altri lidi, ma, come me, anche loro avrebbero dovuto farlo.

Il mio ultimo soggiorno al mare con la famiglia fu a metà ottobre. Strano, ero andato con loro al mare anche due volte l’anno, ma per la prima volta scoprii che il mare ha un odore. Un profumo romantico di vele rosse, che mi faceva pensare che le impronte sulla sabbia fossero lasciate da passi leggeri, come quelli di Assunta, mentre camminava lungo la riva ascoltando la musica delle onde, sognando il suo amore. Il mare mi riportò alla memoria qualcosa di lontano, dimenticato, infantile: i genitori, una base di vacanza, l’odore dei gamberi cotti nel secchio. Ma sembrava che tutto questo non fosse accaduto a me, ma a qualcun altro.

Mi tornò in mente un episodio dimenticato della mia infanzia. Quando aiutai la nostra vicina del quinto piano a scendere in strada, sulla panchina sotto casa. Non c’era ascensore, e lei aveva le gambe malate, raramente usciva. Ricordo quando l’aiutai a sedersi sulla panchina, come alzò lo sguardo e disse: “Che meraviglia, che bellezza”. Bello? Fuori c’era fanghiglia, sporco e umido, cosa poteva esserci di bello? Ricordo quanto rimasi sorpreso allora, ma non dissi nulla. Ora guardo tutto questo e penso: quanto è veramente bello, che benedizione! È meraviglioso essere in grado di respirare quest’aria fresca autunnale con i propri polmoni, sentirsi le gocce di pioggia bagnarsi il volto… e le lacrime, che scivolano in sottili rivoli salati dai miei occhi che si chiudono.

Non avevo mai pregato prima. Durante il matrimonio, il prete ci disse di recitare il “Padre Nostro” a casa. Io presi l’abitudine di recitarlo meccanicamente prima di dormire, come una formula, e poi andavo a letto. Ora tutto è cambiato. Comprendo il significato della parola con cui inizia la preghiera. Padre… amorevole, da cui dipende tutta la mia vita, la connessione con il quale mi è mancata, ma che ora ho ritrovato. Una strana sensazione di paura selvaggia della morte e dei nuovi rapporti con Dio, fondati sull’amore. Dal mio sconforto mi salvava solo la speranza che Lui, mio Padre, fosse qui, accanto a me, che mi ascoltasse, comprendesse, amasse e sapesse cosa accadeva dentro di me. Questa speranza non annullava le mie paure, ma le trasfigurava, mi dava la forza di gestire me stesso.

Avevo un bisogno colossale di pregare. Non potevo più non farlo. La preghiera e la vita diventavano una cosa sola. Tutto si ricontestualizzava radicalmente. Ciò che era importante e significativo divenne piccolo e insignificante. E quello a cui prima non prestavo attenzione divenne il più importante. Il calore degli amici, l’amore dei familiari, il valore inestimabile di ogni istante fuggevole della vita.

Ma in realtà, cosa importa come sei vestito, che macchina guidi o quanti soldi hai? È importante poter amare, vivere, fare del bene, ringraziare e crescere spiritualmente. Questa è la vera gioia dell’esistenza.

Oh Signore mio Dio! Solo ora, sulla soglia della morte, ho capito che il mio vero compito, come quello di ognuno di noi, era ESSERE, non POSSEDERE. Avrei dovuto essere un esempio su come essere un buon marito, padre, amico e semplice passante per la vita, non indifferente alla vita stessa. Tutta la mia vita prima della malattia è stata un carnevale, dove ho ballato con una maschera, cambiandola a seconda del ballo e del partner. Ho nuotato in superficie della vita, mentre tutte le cose più preziose e significative erano in profondità. Ho iniziato a soffrire, ma sembrava che insieme al dolore, stesse uscendo da me qualcosa di cattivo e vile.

Tutto ciò che ricevevo da Dio e dagli altri mi riempiva di un profondo senso di gratitudine. Per ogni gesto gentile, sorriso, movimento del cuore ero pronto ad abbracciare e piangere di amore. Tutte le persone mi sembravano così buone e gentili, che non smettevo mai di meravigliarmi della loro bontà. Desideravo solo una cosa: avere misericordia verso tutti, perdonare tutti, ringraziare tutti e augurare a tutti la salvezza dell’anima.

Quando l’infermiera entrava nella mia stanza, sistemava il cuscino e la coperta, non potevo più ringraziarla con le parole, perché non riuscivo a parlare, ma il mio cuore piangeva lacrime di gratitudine.

Non potevo più ringraziare tutti quelli che stavano alla mia tomba, ma li abbracciavo tutti con il mio cuore e con le lacrime dicevo a ciascuno “GRAZIE”. Voglio che lo sappiate. Sappiate che vi amo tutti moltissimo. Ho capito cosa sia la vita solo alla fine. E ringrazio Dio per avermi dato questa opportunità, perché avrebbe potuto non essere. Ho capito cosa sia la felicità. Essa non si può trovare, catturare e mettere in un barattolo. Così, come una farfalla, morirebbe.

La felicità è nel momento presente, è inafferrabile.

La felicità è gioia. È un sentimento costante e perenne di beatitudine interiore.

La felicità è Dio, che ho ritrovato alla fine del mio cammino e nelle cui braccia aperte sono finito.”

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