Mi ha cacciato, accusandomi della malattia del bambino: “Non sei una madre, sei una punizione

Mi ha cacciato, accusandomi della malattia del bambino: “Non sei una madre, sei una punizione”

— Che cosa hai combinato?! Per colpa tua il bambino si è ammalato! Vattene! Subito! Non ti voglio più vedere in questa casa! — urlava, e nella sua voce non c’era ombra di dubbio. Solo rabbia e accuse.

Così Luca ha messo la parola fine. Non a una discussione, ma alla nostra famiglia.

Era convinto: qualsiasi cosa accadesse a nostro figlio fosse colpa mia. La febbre, la tosse, le lacrime del piccolo — tutto, a suo dire, dipendeva da me. Secondo lui, ero una madre incapace, che non stava attenta, che “sbagliava sempre tutto”. E non c’era modo di fargli cambiare idea. Non mi ascoltava, non voleva ascoltarmi.

Mi sono stretta al muro nel corridoio mentre lui correva per casa, sbattendo le ante, spostando le cose del bambino con furia. Nell’altra stanza c’era nostro figlio — accaldato, assonnato, debole. Avevo passato tutta la notte con lui, a dargli da bere, a fargli passare la febbre, senza allontanarmi un attimo. E ora? — “Vattene”.

Quando Luca lo ha messo a dormire, è venuto da me. Sul viso aveva solo freddezza. Negli occhi, una determinazione di ghiaccio.

— Perché sei ancora qui? Te l’ho detto: sparisci. Dimenticati del bambino. Non ha bisogno di una madre come te. E non voglio più vederti.

Non ho urlato. Non ho discusso. Ho solo sussurrato che amavo mio figlio, che ero disposta a cambiare, a migliorare. Lo supplicavo di fermarsi. Ma lui non mi ascoltava.

— Fai solo danni. Gli fai solo male, Giulia, — ha detto, come un colpo secco. — Ormai ho capito tutto.

Ha preparato la mia borsa. Ha aperto la porta in silenzio. E mi ha indicato l’uscita.

Non ricordo come sia finita per strada. Tutto era sfocato. Faceva freddo, le mani mi tremavano, e in testa batteva un solo pensiero: “Ho lasciato mio figlio… Mi hanno cacciato dalla sua vita”.

Luca non ha risposto al telefono il giorno dopo. Non si è fatto vivo per una settimana. Mi ha bloccata ovunque.

Gli ho scritto messaggi, ho chiamato sua madre, ho chiesto almeno di poter vedere mio figlio. Ma nessuno rispondeva. Era come se non esistessi più.

Io sono una madre. Ho portato quel bambino nel mio cuore per nove mesi. L’ho partorito, gli ho cantato le ninne nanne, sono stata con lui nelle notti insonni, l’ho tenuto tra le braccia quando gli dolevano i dentini.

E ora? Per loro sono “nessuno”.

Luca ha deciso di avere il diritto di portarmi via mio figlio. Non un giudice, non i servizi sociali. Solo un uomo offeso perché il bambino si è raffreddato.

E io non c’entravo davvero niente. Era un semplice raffreddore. Autunno, spifferi, l’asilo dove tutti i bambini starnutiscono. Ma per Luca è stato il pretesto. Il pretesto per finirmi. Per accusarmi.

Non so come andrà a finire. Ma non mi arrenderò. Troverò un modo. Che sia con un tribunale, o che ci vogliano anni, ma riavrò mio figlio.

Perché io sono una madre. Ed essere madre non è un ruolo temporaneo. È per sempre. Anche se la tua vita improvvisamente è rimasta dietro a una porta chiusa.

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