«Mi ha lasciato la figlia? – Un’orrenda intuizione fece infiammare Valentina. – No, non può essere. Tornerà sicuramente!»

«Mi hai lasciato la tua bambina?»—un pensiero atroce fece sudare freddo Valentina. «No, non può essere. Tornerà senz’altro.»

Valentina rientrò dal lavoro e trovò sul tavolo un biglietto della figlia. Con Anastasia i rapporti erano sempre stati complicati, ma non si aspettava che sarebbe scappata di casa così. Lo rilesse più volte, quasi memorizzandolo, eppure le sembrava di non aver colto qualcosa di importante, di aver frainteso.

Quella notte non riuscì a dormire. Il cuscino le sembrava troppo duro, la coperta pesante, l’aria afosa. Piangeva, poi immaginava dialoghi infiniti con Anastasia, rivivendo i litigi e i pochi momenti felici.

Alla fine, esausta, si alzò, accese la lampada da tavolo. Il biglietto, ormai sgualcito, era poggiato sopra i suoi documenti. Lo lesse ancora, quasi sentendo la voce irritata e accusatoria della figlia:

*Sono stufa del tuo controllo… Sei troppo severa… Voglio vivere da sola. Sono adulta… Tanto non mi avresti lasciato andare, quindi me ne vado mentre sei al lavoro. Sto bene. Non sono sola. Non cercarmi. Non tornerò…*

Nessuna introduzione, nessuna firma. «E io?—pensò Valentina, come se Anastasia potesse sentirla—E se mi succede qualcosa, non hai nemmeno un posto dove avvisarti. Non ti importa nulla di me?»

Forse Anastasia aveva ragione, a modo suo. Ma lei, da madre, voleva solo che studiasse, trovasse un lavoro dignitoso, che un sentimento improvviso o una gravidanza indesiderata non le rovinassero la vita. Esistono madri che permettono tutto ai figli?

Anche Valentina si era sposata da studentessa, e ricordava quanto quell’amore ardente fosse svanito sotto i debiti, la vita in una stanza minuscola, la stanchezza quotidiana.

Con la nascita di Anastasia, tutto divenne ancora più difficile. Lei e il marito, altrettanto giovane, smisero di capirsi, si scontravano sempre. Forse sua madre aveva avuto ragione a suggerirle di abortire? Ma Valentina credeva che l’amore avrebbe vinto. Che ingenuità.

Dopo tre mesi divorziarono. Valentina prese un anno sabbatico e tornò dai genitori. Sorprendentemente, sua madre si affezionò subito alla nipotina, nonostante avesse insistito per l’aborto. Lasciò che Valentina finisse l’università mentre lei si occupava di Anastasia, viziandola senza misura.

Finché i nonni vissero, Valentina non conobbe preoccupazioni. Dopo la laurea, insegnò inglese per due anni, poi trovò lavoro come traduttrice.

Ma in amore non ebbe fortuna. Sua madre le diceva di cercare un uomo maturo, indipendente. Invece trovò solo uomini sposati che volevano un’amante, o divorziati senza un soldo. Aveva paura di legarsi a loro.

Quando i nonni morirono, rimase solo con Anastasia, la sua unica famiglia. Dedicò tutto a sua figlia, che però, come scoprì, non ne voleva sapere. Viziatissima dalla nonna, vedeva Valentina come una tiranna. Sognava libertà, non studi o carriera. E quel giorno era scappata…

«Aspetterò. Cos’altro posso fare? Tornerai. Sono tua madre, ti amo e ti perdonerò. Purché non ti succeda nulla…» Valentina sospirò, spense la luce e si coricò. Si agitò ancora mezz’ora, poi cadde in un sonno inquieto.

Per mesi non si rassegnò alla partenza di Anastasia, sobbalzando a ogni squillo o rumore alla porta. Oltre al lavoro in ufficio, accettò traduzioni da fare a casa, lavorando fino a tardi. Dormiva poco. Così non aveva tempo per piangersi addosso. Pensava a sua figlia, convincendosi che stesse bene.

Un anno e mezzo dopo, il campanello la interruppe. Con riluttanza posò gli occhiali e si massaggiò gli occhi stanchi. Il suono si ripeté, e Valentina andò ad aprire.

Sulla soglia c’era Anastasia, dimagrita e trascurata. Valentina trasalì, le tese le braccia.

«Anastasia! Finalmente. Ti ho aspettata tanto.»
Ma si bloccò davanti al suo sguardo gelido. Solo quando Anastasia entrò, Valentina notò il bambino che teneva in braccio.

«È tuo? Dammelo.» Lo prese in braccio. «Una femmina?» esclamò, felice. «La porto in camera, tu intanto accomodati.»

Mentre sistemava la piccola addormentata sul divano, ammirandone i riccioli biondi e le labbra carnose, sentì la porta sbattere. Anastasia era già uscita.

In ingresso, solo una borsa abbandonata e le impronte bagnate degli stivali. Valentina corse alla finestra: nessuna macchina, nessuna Anastasia. Tornò dalla bambina, che dormiva ignara.

«Mi hai lasciato tua figlia?» Il terrore le gelò il sangue. «No, non è possibile. Tornerà. La borsa!» La aprì freneticamente: solo vestiti per la bimba.

Improvvisamente la piccola si agitò, piangendo. Valentina la cambiò, ripetendo tra sé: «La mamma tornerà presto…» Poi trovò i documenti in un taschino: Irene Leonidovna Tichonova. Anastasia non si era sposata, se la bimba portava il suo cognome.

C’era anche un altro biglietto: *”Lasciala con te per un po’.”* Fine.

Trovò un biberon e del latte in polvere. «Meglio di niente», pensò, correndo in cucina. I documenti da tradurre giacevano dimenticati sul tavolo.

Iniziò una vita nuova. Valentina lavorò solo da casa, per stare con Irene. Era stanca, ma felice: finalmente un senso alla sua esistenza.

A tre anni, Irene entrò all’asilo. Valentina spiegò alla direttrice che la madre viaggiava spesso per lavoro.

Col tempo, si affezionò alla nipotina, che però la chiamava “mamma”.

«La tua mamma è un’altra. Io sono la nonna», le diceva.
Ma Irene continuò, finché Valentina propose: «Chiamami Vale. Nonna Vale.»

Da allora, fu solo “Vale”.

Anastasia non diede più notizie. Quando Irene iniziò la scuola, Valentina temette problemi, ma il preside, che la conosceva, sistemò tutto.

Amore e orgoglio la riempivano durante i colloqui. Irene era una bambina sveglia e responsabile, diversa da Anastasia, svogliata e ribelle.

Una primavera, tornando da scuola con Irene, Valentina si fermò a fare la spesa. Mentre cercava le chiavi, una voce la chiamò:

«Mamma.»

Si voltò di scatto, lasciandole cadere. Anastasia era irriconoscibile: bionda, elegante, profumata di Chanel. Valentina fu felice, ma capì subito: era venuta a riprendersi Irene.

La bambina raccolse le chiavi, guardando incuriosita la straniera, ma restando vicina a Valentina.

«Allora sei tornata. E so perché», disse Valentina, spingendo Irene dentro casa.

Salirono in silenzio. Dentro, Anastasia annunciò: «Vivo in Spagna. Sono sposata. Mio marito vuole che Irene venga con noi.»

Valentina la pregò di darle tempo, ma Anastasia fu crudele: «Non tornerò senza di lei.»

I giorni successivi furono pieni di tensioni. Irene si rifiutò di partire: «Vale viene con noi?»

«No, la nonna resta qui.»

«Allora resto anch’io.»

Anastasia partì comunque, minacciando di tornare con unAnastasia se ne andò senza Irene, ma otto anni dopo, quando il marito morì e lei perse tutto, tornò indietro con le lacrime agli occhi, e questa volta Valentina la accolse senza rimproveri, perché aveva capito che l’amore di una madre non finisce mai, e che alle volte il perdono è l’unico modo per ritrovare la felicità.

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