Mi invita a casa dei suoi genitori, ma non accetto di trasformarmi nella loro domestica

**Diario Personale**

Mi invita a vivere con i suoi genitori, ma mi rifiuto di diventare la loro serva.

Mi chiamo Beatrice, ho ventisei anni. Io e mio marito, Matteo, siamo sposati da quasi due anni. Viviamo a Milano, in un piccolo appartamento accogliente che ho ereditato da mia nonna. Allinizio andava tutto bene: Matteo era felice di stare con me, gli piaceva la nostra sistemazione. Poi, laltro giorno, come un fulmine a ciel sereno, mi ha detto: «È ora di trasferirci nella casa di famiglia, cè spazio, e quando avremo figli sarà perfetto.»

Ma io non voglio quel «perfetto» sotto lo stesso tetto con la sua famiglia chiassosa. Non voglio scambiare la mia casa per un posto dove regnano il patriarcato e lobbedienza cieca. Lì, non sarei sua moglie, ma manodopera gratuita.

Ricordo bene la mia prima visita da loro. Una grande casa di campagna in periferia, almeno trecento metri quadri. Ci vivono i suoi genitori, suo fratello minore, Luca, sua moglie, Sofia, e i loro tre figli. Il pacchetto completo. Appena messo piede nellingresso, mi hanno assegnato il mio posto. Le donne in cucina, gli uomini davanti alla tv. Non avevo nemmeno finito di disfare la valigia che sua madre mi ha piazzato un coltello in mano, ordinando: «Taglia linsalata.» Niente un «per favore», niente un «quando vuoi». Solo un comando.

A cena, ho visto Sofia correre da una parte allaltra senza osare contraddire la suocera. A ogni osservazione, un sorriso colpevole e un cenno di assenso. Mi si è ghiacciato il sangue. Ho capito subito: questa non è vita per me. Non ci penso nemmeno. Non sono una Sofia obbediente, e non mi piegherò.

Quando abbiamo annunciato la partenza, sua madre ha gridato:
E chi laverà i piatti?
Lho guardata dritta negli occhi e ho risposto:
Gli ospiti puliscono dopo gli invitati. Noi siamo invitati, non dipendenti.

Allora è scoppiato il finimondo. Mi hanno chiamata ingrata, insolente, viziata cittadina. Li ho ascoltati, serena, pensando: qui non avrò mai un posto mio.

Matteo quel giorno mi ha sostenuta. Siamo andati via. Per sei mesi è stato tutto tranquillo. Lui vedeva la sua famiglia senza di me, e a me andava bene. Ma ora torna a parlare di trasferirsi. Prima allusioni, poi sempre più insistenti.

Lì è la famiglia, è casa nostra ripete. Mamma potrà aiutarti con i bambini, avrai modo di riposarti. E il tuo appartamento lo affittiamo, sarebbe un reddito in più.

E il mio lavoro? ho ribattuto. Non lascerò tutto per seppellirmi a quaranta chilometri da Milano. Cosa farò lì?

Non avrai bisogno di lavorare ha scrollato le spalle. Avrai un figlio, ti occuperai della casa, come tutti. Una donna deve stare a casa.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sono una donna laureata, con una carriera e ambizioni. Sono editor, amo il mio lavoro, ho costruito tutto da sola. E mi dicono che il mio posto è dietro ai fornelli e ai pannolini? In una casa dove mi urleranno per una pentola non lavata e mi insegneranno a fare il brodo o a partorire «come si deve»?

So che Matteo è figlio del suo ambiente. Lì, i figli perpetuano la stirpe, e le mogli sono straniere che devono tacere e ringraziare di essere accettate. Ma io non sono tipo da ingoiare rospi. Ho digerito quando sua madre mi umiliava. Ho stretto i denti quando Luca rideva: «Sofia, lei, non si lamenta mai!» Ma ora basta.

Gli ho detto chiaro:
O viviamo separati, nel rispetto, o torni nel tuo castello di famiglia senza di me.
Si è offeso. Mi ha accusata di distruggere la famiglia. Ha detto che un figlio non vive «su territorio straniero». Ma non mimporta. Il mio appartamento non è straniero. E la mia voce conta.

Non voglio divorziare. Ma vivere con il suo clan? Neanche per sogno. Se non rinuncia allidea di trasferirmi accanto a sua madre, farò io le valigie per prima. Perché è meglio essere sola che essere in secondo piano dopo la sua famiglia.

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