Ecco la storia adattata alla cultura italiana:
Leonardo si agitava per la piccola cucina come una tigre in gabbia. Si stropicciava le mani, spostava i piatti, aggiustava la zuccheriera, cercando conforto in quella routine che odiava. In testa gli ronzava un monologo. Doveva parlarle. Mettere fine a tutto. Basta. Non ce la faceva più.
Giulia, ovviamente, avrebbe pianto. Avrebbe chiesto di restare. Gli avrebbe detto che era stanca, che ci stava provando. Che potevano ancora sistemare tutto. Ma lui sapeva la verità: era finita. Non c’era più nulla. Solo due coinquilini tenuti insieme da un mutuo e da un frigorifero. Senza amore, senza rispetto, manco la rabbia. Niente.
Sentì girare la chiave nella serratura. Si preparò, come prima di un tuffo nel vuoto.
Giulia entrò in casa, si appoggiò al mobiletto. Prima cosa: si tolse quelle dannate scarpe nuove. La giornata era stata un inferno – lavorare come commessa in un negozio di abbigliamento al centro commerciale l’aveva trasformata in una macchina: portami questo, prova quello, aiutami, cambia. La primavera risvegliava in tutti la voglia di cambiamenti: chi cercava l’amore, chi un vestito nuovo.
«Ciao. Stanca?» chiese Leonardo con cautela.
«Cane morto. Non mi sono seduta un attimo» sospirò lei, senza guardarlo.
«Capisco. A che ora cena?»
Giulia annuì e andò in cucina. Venti minuti dopo, i fornelli bollivano, le padelle sfrigolavano, l’aria era piena di profumi in cui Leonardo cercava ancora un senso alla vita.
Si fermò sulla porta, tirò un respiro profondo.
«Giulia…» cominciò. «Dobbiamo parlare.»
Lei si girò, continuando a pelare le carote. Senza sorpresa, senza ansia.
«Separiamoci» sbotto lui. «Non ne posso più. Siamo estranei. Hai ucciso la mia ispirazione. Io sono un artista, tu sei la routine. Mi chiedi soldi, non mi fai crescere, mi tagli le ali. Non voglio più questa vita.»
Era un’improvvisazione, ma gli sembrava perfetta. Quasi come a un provino.
Giulia continuò a pulire le carote, poi all’improvviso le gettò nel lavandino, si tolse il grembiule, spense i fornelli e lo fissò.
«Dai, facciamolo» disse calma. «Basta con questa routine.»
Lui restò di sasso. Non era previsto nel copione. Dov’erano le lacrime? Le urla?
Mentre cercava di digerire la sua reazione, Giulia si preparò un caffè, prese formaggio e biscotti, si sedette a tavola.
«Giu… sei in shock. È normale. Ma anche tu lo sentivi, no? Cucini senza passione. È tutto meccanico…»
«Già. Senza passione» ripeté lei, bevendo un sorso.
La conversazione stava crollando. Perdeva colpi, battute.
«Dobbiamo decidere cosa fare con la casa» disse goffamente. «E il resto…»
«Pensavo fossi tanto soffocato dalla routine da andartene senza voltarti. Invece eccoti qui, preoccupato per il mutuo» lo canzonò. «Va bene. Lasciami la casa. Ma dammi metà di quello che hai pagato. Andrò da mio padre. È anziano, mi chiama da tempo.»
«Sei sempre così calcolatrice» sbuffò lui. Lui pensava fosse più semplice. Sognava una carriera nel cinema, andava ai provini mentre faceva il guardiano. Tutto quello che guadagnava lo dava a lei, senza farsi troppe domande. E ora invece: soldi, rate, carte.
Voleva la libertà. E si ritrovò con i conti.
«Giulia, tieniti tutto. Mi ridarai i soldi quando potrai. Non sono un mostro» aggiunse con enfasi, come se le avesse regalato un castello, non un bilocale.
«Grazie. A proposito, c’è qualcun altro?» chiese con distacco.
«Non importa» borbottò lui misterioso. Lasciasse che pensasse fosse conteso.
Se ne andò con un senso di vittoria. Libertà. Vita artistica, lontano da padelle e rimproveri.
Passarono sei mesi.
Leonardo si trovò davanti alla porta di casa e esitò. Tutto era cambiato. Vivere con sua madre era diventato un incubo. Lo rimproverava per il divorzio, lo tormentava per la carriera mancata, lo cacciava via con scuse, faceva scenate quando portava donne a casa. Persino una cameriera era scappata, incapace di sopportare le sue critiche.
Sua madre era peggio di Giulia. Molto peggio.
E poi, la ciliegina sulla torta: voleva che se ne andasse. Era sicuro che avesse un altro. Litigarono. Lo chiamò fallito e gli ordinò di trovarsi un lavoro invece di sognare il cinema.
E proprio allora chiamò Giulia. Voleva chiudere la questione della casa e firmare il divorzio. Ed eccolo lì.
Si preparò: sguardo tragico, parole di pentimento, una lacrima di circostanza.
Premette il campanello.
«Ciao. Entra» aprì Giulia. Sembrava… splendida. O forse era solo la nostalgia.
Entrò in cucina come se fosse ancora suo. E rimase a bocca aperta.
Davanti ai fornelli c’era un uomo seminudo in tuta che friggesse carne. Dal soffice sibilo della padella al mucchietto di banconote sul tavolo.
«Tu chi sei?» domandò Leonardo con voce rotta.
«Massimo» rispose l’altro, senza neanche voltarsi.
«Giu… possiamo parlare?» balbettò lui.
Nella stanza, sbottò:
«Chi è? Cosa ci fa qui?»
«Sta preparando la cena» rispose lei, tranquilla.
«E io?»
«Tu te ne sei andato.»
Silenzio. Pesante come una condanna.
«E se… tornassi?»
«Dove? Il posto è occupato. Alla mia “banalità” Massimo non si oppone. Per lui contano la famiglia, i bambini, la casa al mare. Ci sposeremo non appena il divorzio sarà ufficiale.»
«E tu?»
«Anch’io.»
«E io?» urlò. «Lui cos’ha di meglio?»
«Lui mi nutre con la cena. Tu con le promesse.»
Fine.