Mi sono sposata con il mio vicino, un ottantadueenne, per impedirgli di finire in una casa di riposo.
Sei impazzita? ha esclamato la mia sorella Maria, quasi facendo cadere il caffè sul tavolo, quando glielho detto.
Prima di tutto, ha ottantadue anni, non ottantadue malattie, ho risposto con la calma di chi narra un sogno. E poi, lasciami finire.
Il tutto è iniziato quando ho sentito, sotto le sue finestre di un vecchio palazzo a Firenze, il bisbiglio dei suoi figli. Venivano due volte lanno: controllare che il padre ancora respirasse, e poi sparivano di nuovo. Lultima volta sono tornati con dei depliant di case di riposo.
Papà, hai ottantadue anni, non puoi vivere da solo.
Ho ottantadue anni, non ottantadue malattie, ha replicato con voce roca ma tiepida. Cucino da solo, vado al mercato, guardo le serie senza addormentarmi. Va tutto benissimo!
Quella sera ha bussato al mio portone, portando una bottiglia di vino rosso e latteggiamento di chi sta per un dialogo disperato ma necessario.
Ho bisogno di un aiuto un po strano, ha iniziato.
Due bicchieri dopo, quellaiuto bizzarro si è trasformato in una proposta di mano e cuore.
Solo formalmente, spiegava Antonio, il mio nuovo sposo. Se sono già sposato, i figli avranno più difficoltà a mandarmi lontano, fuori dalla vista.
Ho guardato i suoi occhi blu, ancora pieni di scintilla e carattere, e ho pensato alle mie serate tranquille: un appartamento vuoto, la televisione accesa e il silenzio che avvolgeva tutto. Lui, invece, era lunico che ogni giorno mi chiedeva come andava.
E cosa guadagno io? ho chiesto.
Metà delle bollette, il goulash della domenica e qualcuno a cui importa che tu sia tornata a casa.
Tre settimane dopo eravamo in piedi davanti al comune di Bologna, pronti a firmare. Io in un vestito che sembrava uscito da un sogno mattutino, lui in un vecchio completo che profumava di naftalina e ricordi. Testimoni: la fioraia del kiosco e suo marito, che trattenevano a stento le risate.
Potete baciare la sposa, ha annunciato lufficiale.
Lui mi ha sfiorato la guancia con un bacio così forte da sembrare lapertura di una busta.
Da quel momento tutto è andato sorprendentemente liscio: si alzava alle sei, faceva le sue legendarie cinque flessioni, io bevevo il caffè di ieri e mi coricavo tardi dopo il lavoro.
Non è caffè, è tortura, brontolava.
E i tuoi esercizi sono una parodia di sport, rispondevo.
La domenica la casa si riempiva dellodore di goulash e delle risate. Lui raccontava della moglie che aveva amato tutta la vita, dei figli che lo vedevano più come un problema che come un padre. Un giorno, proprio quei figli irromperono nella nostra casa con accuse:
La sta usando!
Vi sento benissimo! ha gridato dalla cucina. E, a proposito, il tuo caffè è peggiore!
Perché volete questo matrimonio? mi ha chiesto la figlia, fissandomi con sguardo gelido.
Lho guardata mentre lui cantava, versandomi un altro caffè.
Perché? Perché non sono sola. Ho qualcuno con cui cenare la domenica. Ho qualcuno a cui dire: Sono a casa. Ho accanto una persona che ride al mio sorriso. È un crimine?
La porta si è sbattuta così forte da mettere un punto fermo al loro ragionamento. Lui è tornato con due tazze.
Pensano che sia pazzo,
Non sbagliano, ho sorriso,
Anche tu sei pazza,
Perciò siamo la coppia perfetta,
Il tuo caffè è ancora veleno,
Il tuo sport è un cartone,
Ma è la famiglia, alla fine.
Ci siamo brindati con le tazze al tramonto, sotto una luce che sembrava dipinta da un pittore di sogni, e lamore era allo stesso tempo vero e irreale.
Sei mesi dopo, la routine è la stessa: lui si alza ancora troppo presto, io continuo a rovinare il caffè, le domeniche odorano di goulash e felicità.
Non ti penti?
Un solo istante, ho risposto, ogni volta.
Che qualcuno definisca il nostro matrimonio una finzione; per me è la cosa più autentica che mi sia mai capitata.
Cinzia Bianchi.





