Mi ha abbandonato la mia stessa madre sulla soglia di un appartamento sconosciuto. Dopo 25 anni, si è presentata come donna delle pulizie a casa mia, senza sapere che ero io la figlia che aveva lasciato.
“Un bambino senza radici cosè? Niente. Un fantasma che per caso ha trovato un corpo.”
“Quindi ti sei sempre sentita un fantasma?” chiese Michele, mescolando il caffè nella mia cucina elegante.
Lo guardai, il mio unico amico che conosceva tutta la verità. Lunico che mi aveva aiutato a trovarla. Lei, che mi aveva portato in grembo e poi buttata via come un abbozzo inutile.
Il mio primo pianto non aveva toccato il suo cuore. Ai miei genitori adottivi era rimasta solo una nota appuntata alla copertina economica: “Perdonatemi”. Una parola sola, tutto ciò che avevo ricevuto dalla donna che avrebbe dovuto essere mia madre.
Luisa Petroni e Giovanni Serra, una coppia anziana senza figli, mi trovarono una fredda mattina dottobre.
Aprirono la porta e videro un fagotto. Vivo, che piangeva. Ebbero la decenza di non portarmi in un orfanotrofio, ma non abbastanza amore per accogliermi come loro figlia.
“Sei in casa nostra, Alessandra, ma ricorda: noi non siamo la tua famiglia, e tu non sei nostra. Facciamo solo il nostro dovere,” ripeteva Luisa ogni anno nel giorno in cui mi avevano trovata.
Il loro appartamento divenne la mia gabbia. Mi avevano dato un angolo nel corridoio con un letto pieghevole. Mangiavo separatamente, dopo di loro, avanzi freddi.
I vestiti venivano dai mercatini dellusato, sempre due taglie più grandi. “Crescerai e ti andranno bene,” diceva Luisa. Ma quando finalmente mi stavano, erano già logori.
A scuola ero unemarginata. “Trovatella”, “senza famiglia”, “bastarda” sussurravano i compagni.
Non piangevo. A cosa sarebbe servito? Accumulavo invece. Accumulavo forza, rabbia, determinazione. Ogni spinta, ogni risata, ogni sguardo freddo diventavano carburante.
A tredici anni iniziai a lavoricchiare: distribuivo volantini, portavo a spasso i cani. Nascondevo i soldi sotto una tavola del pavimento. Luisa li trovò una volta mentre puliva.
“Rubi?” chiese, tenendo in mano le banconote stropicciate. “Lo sapevo, tale madre tale figlia…”
“Sono miei, li ho guadagnati,” risposi.
Li gettò sul tavolo.
“Allora pagherai. Per il vitto e lalloggio. Ormai sei grande.”
A quindici anni lavoravo ogni momento libero dalla scuola. A diciassette mi iscrissi alluniversità in unaltra città.
Partii con uno zaino e una scatola che conteneva lunico legame con la mia storia: una foto da neonata scattata dallinfermiera prima che mia madre mi portasse via dallospedale.
“Non ti ha amata, Ale,” mi disse Luisa alla partenza. “E neanche noi. Ma almeno siamo stati onesti.”
Nellostello vivevo con tre ragazze. Mangiavo solo pasta istantanea. Studiavo fino allo sfinimento, solo voti alti, solo per la borsa di studio.
Di notte lavoravo in un minimarket. Le compagne ridevano dei miei vestiti consumati. Io non le sentivo. Sentivo solo la voce dentro di me: “La troverò. Le farò vedere cosa ha buttato via.”
Non cè niente di peggio del sentirsi indesiderati. Ti entra nella pelle come schegge che non escono mai.
Guardai Michele e toccai la catenina doro al collolunico mio lusso, comprato dopo il mio primo progetto importante. Lui conosceva tutto. Aveva trovato mia madre. Mi aveva aiutato con il piano.
“Sai che questo non ti darà pace, vero?” chiese.
“Non cerco pace,” risposi. “Cerco una fine.”
La vita è imprevedibile. A volte ti offre unopportunità dove meno te laspetti. Al terzo anno, il destino mi fece locchiolinoun professore di marketing ci diede un progetto per un brand di cosmesi bio.
Passai tre giorni senza dormire, riversando tutta la mia rabbia in quel lavoro. Quando finii, in aula cadde il silenzio.
Una settimana dopo, il professore irruppe nellaula con gli occhi che brillavano: “Ale, ci sono investitori da Milano. Vogliono parlare della tua idea.”
Invece di un compenso, mi offrirono una piccola quota nella startup. Firmai con mano tremantenon avevo nulla da perdere.
Un anno dopo, la startup dec