«”Mia madre pesa su di noi” — leggere queste parole mi ha gelato il cuore»

«Mamma ci sta sfruttando» — quando ho letto queste parole, mi si è ghiacciato il sangue.

Nella mia casa di due stanze, per anni ho vissuto con mio figlio Matteo e la sua famiglia. Si sono trasferiti da me subito dopo il matrimonio, valigie in mano, gridando: «Mamma, resteremo solo un po’!». Sono passati dieci anni. Con loro ho festeggiato ogni nuova nascita, sopportato malattie infantili, notti insonni e un caos quotidiano che sembrava quello di una stazione ferroviaria.

Mia nuora Giulia è stata in maternità una, due, poi tre volte. Quando i bambini stavano male, toccava a me o a lei prendere i permessi per accudirli. Io non pensavo mai a me stessa: pranzi da riscaldare, pannolini da cambiare, pareti imbrattate di pastello. Dentro di me, né silenzio, né pace, né riposo. Solo rimproveri: «Sei la nonna, no?».

Contavo i giorni alla pensione come un prigioniero attende la libertà. Pensavo che finalmente avrei vissuto un po’ per me. E sì, i primi sei mesi furono davvero magici. Ma la favola durò poco.

Ogni mattina mi svegliavo alle sei, accompagnavo Matteo e Giulia al lavoro, tornavo a casa, preparavo la colazione ai nipotini, portavo uno all’asilo e l’altro a scuola. Con la più piccola passeggiavo al parco, poi pranzo, bucato, pulizie. La sera, scuola di musica, compiti, fiabe della buonanotte. Tutto minuto per minuto.

A volte, di notte, quando finalmente i bambini dormivano, mi concedevo un lusso: leggere un libro o prendere in mano il mio ricamo. Era sempre stata la mia passione silenziosa. Una sera, mentre riordinavo, ricevetti un messaggio da Matteo. Lo lessi e mi sentii morire.

«Mamma ci sta sfruttando — aveva scritto a qualcuno — e noi dobbiamo pure pagarle le medicine». Rileggo più volte. Per un attimo penso a un errore. Poi capisco: quel messaggio non era per me. Quelle parole mi bruciano la memoria. Come un coltello nella schiena.

Non dissi nulla. Niente scene, niente lacrime. Presi in silenzio una stanza in affitto in un altro quartiere. Dissi loro che volevo vivere da sola — «così sarà più comodo». Ma l’affitto mangiava quasi tutta la pensione. Vivevo di pasta e tè, ma almeno era il mio spazio.

Anni prima, ancora prima della pensione, mi ero comprata un computer portatile. Giulia rise: «Ma a cosa ti serve, mamma? Non sai neanche usare i tasti!». E invece imparai. L’amica di mia figlia mi insegnò le basi e cominciai a pubblicare foto delle mie creazioni online.

All’inizio condividevo solo i lavori, poi le ex colleghe dell’ufficio iniziarono a chiedermene alcuni. Poi le loro amiche. Una volta, una vicina mi pagò per insegnare alla nipote a ricamare. E così ebbi le mie prime allieve: tre ragazzine. Soldi modesti, ma guadagnati con dignità. Soprattutto, mi sentivo utile, ma non obbligata.

Non chiesi più nulla a mio figlio. Non mi umiliai. Non lo chiamai. A volte ci vediamo alle feste di famiglia, ma parliamo solo di tempo e ricette. Non porto rancore. Semplicemente, non posso più vivere dove mi considerano un peso.

Ora ho il mio piccolo angolo. Profuma di lavanda, non di calzini sporchi. Alle pareti ci sono i miei quadri, non i disegni dei nipoti. E nel cuore? Non ho pace, ma almeno ho rispetto per me stessa.

Non volevo una guerra. Volevo gratitudine. O almeno onestà. Ma se mio figlio crede che io vivessi alle sue spalle, che ora viva senza di me. E io vivrò senza di lui.

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