Vivere in affitto da anni, col terrore che un giorno il proprietario ti dica «Ciao, ci serve casa», è come abitare su una valigia sempre pronta a chiudersi. Io e mio marito, Matteo, siamo sette anni che balliamo questa tarantella. Una volta perché il figlio dei padroni di casa ha cambiato università, un’altra perché i vicini facevano festa come se ogni giorno fosse Ferragosto, e poi ci sono gli affitti che salgono più veloci del prezzo del caffè al bar. Figurarsi mettere al mondo un bambino in queste condizioni!
Vivere con i genitori? I miei abitano in un bilocale che fatica a contenere i ricordi, i suoi in una casa dove lo spazio è merce rara. Matteo e io ci siamo laureati, sposati in fretta e furia tra un esame e l’altro, sognando di diventare genitori giovani e cool. Ora? Boh. Con tutti gli sguardi storti che lanciamo ai ventenni in giro, mi chiedo se riconoscerei mio figlio tra dieci anni.
Lavoriamo entrambi, risparmiamo come formichine, rinunciamo agli aperitivi e alle vacanze al mare. Tutto per un buco tutto nostro. Ma per quanto c’impegniamo, i soldi non bastano mai. E come se non bastasse, il padre di Matteo ha iniziato ad avere problemi seri col cuore. Non è vecchio, ma la salute è volubile come il meteo di aprile. Mio marito, ovviamente, lo aiuta economicamente, e il nostro salvadanaio piange ancora di più. Pazienza, famiglia è famiglia.
Poi un giorno, mia mamma, Giuseppina, mi svela di aver ricevuto un’eredità dalla zia Carmelina: una bella somma che vuole regalare a noi per l’anticipo di un mutuo. La gioia ci ha fatto quasi dimenticare che viviamo in un paese dove comprare casa è uno sport estremo. Abbiamo cercato agenzie, visto annunci: o ti propongono un monolocale buio come una cantina, oppure una stanzetta che chiamano «nido romantico» solo perché ci entri uno e mezzo.
Poi Matteo è andato a trovare i suoi. Tornato, aveva la faccia lunga come un lunedì mattina. A cena, tra un boccone di pasta e l’altro, mi ha confessato: suo padre sta malissimo. Servirà un’operazione costosa, e lui vuole usare i soldi di mamma per salvarlo. «La vita vale più di un tetto,» ha detto, «possiamo ancora rimediare i soldi, ma lui…».
Ho provato a fargli notare che quei soldi non erano nostri, che mamma voleva aiutarci, non finanziare una clinica privata. Lui mi ha guardata come se avessi rubato l’ultimo cannolo. «Se fosse tuo padre?» ha chiesto. Da quel momento, in casa nostra tira un’aria più fredda che nelle Dolomiti d’inverno.
Mamma, quando ha saputo, ha strillato al telefono: «Quei soldi li vedrete solo davanti al notaio!». La capisco, ma il cuore mi duole. Non voglio perdere Matteo. Volevo solo un nido, non un campo di battaglia.
Gli amici sono divisi: i suoi dicono che ha ragione, i miei che sono io la santa. Io? Vorrei solo che l’amore non fosse più complicato di un mutuo a tasso variabile.
Alla fine, chi ha davvero torto?