La mamma mi rimprovera perché non l’aiuto con mio fratello malato, ma dopo la scuola ho raccolto le mie cose e sono scappata di casa.
Ginevra era seduta su una panchina nel parco di Firenze, osservando le foglie cadere mentre danzavano nel vento freddo dell’autunno. Il suo telefono vibrò di nuovo—un altro messaggio dalla madre, Francesca: “Ci hai abbandonato, Ginevra! Lorenzo sta peggio, e tu vivi la tua vita come se niente ti riguardasse!” Ogni parola era come un pugno, ma Ginevra non rispondeva. Non poteva. Nel suo cuore, si combattevano la colpa, la rabbia e il dolore, che la trascinavano indietro verso la casa da cui era fuggita cinque anni prima. A diciotto anni, aveva fatto una scelta che aveva diviso la sua vita in un “prima” e un “dopo”. E ora, a ventitré, ancora non sapeva se avesse fatto bene.
Ginevra era cresciuta all’ombra del fratello minore, Lorenzo. Aveva tre anni quando i medici gli diagnosticarono una grave forma di epilessia. Da quel momento, la loro casa si trasformò in una stanza d’ospedale. La madre, Francesca, si dedicò completamente a lui: medicine, dottori, esami senza fine. Il padre se ne andò, incapace di sopportare il peso, lasciando Francesca sola con due figli. Ginevra, che allora aveva sette anni, diventò invisibile. La sua infanzia si perse tra le cure per il fratello. “Ginevra, aiuta Lorenzo”, “Ginevra, non fare rumore, non deve agitarsi”, “Ginevra, aspetta, ora non è il momento”. Aspettò, ma ogni anno sentiva i suoi sogni e desideri allontanarsi sempre di più.
Nell’adolescenza, Ginevra imparò a essere “comoda”. Cucinava, puliva, badava a Lorenzo mentre la madre correva da un ospedale all’altro. Le amiche la invitavano a uscire, ma lei rifiutava—a casa avevano sempre bisogno di lei. Francesca la lodava: “Sei il mio sostegno, Ginevra”, ma quelle parole non la scaldavano. Ginevra vedeva lo sguardo della mamma su Lorenzo—pieno d’amore e disperazione—e capiva che per lei non c’era lo stesso sguardo. Non era una figlia, ma un’aiutante, il cui ruolo era alleviare la vita della famiglia. Nel profondo, amava il fratello, ma quell’amore era intriso di stanchezza e rancore.
All’ultimo anno di scuola, Ginevra si sentiva un’ombra. I compagni parlavano di università, feste, progetti per il futuro, mentre lei non poteva pensare ad altro che alle bollette dell’ospedale e alle lacrime della mamma. Un giorno, tornando da scuola, trovò Francesca in preda alla disperazione: “Lorenzo ha bisogno di una nuova cura, ma non abbiamo soldi! Devi aiutare, Ginevra, trovati un lavoro dopo la scuola!” In quel momento, qualcosa in lei si spezzò. Guardò la madre, il fratello, le mura che l’avevano soffocata per tutta la vita, e capì: se fosse rimasta, sarebbe scomparsa per sempre. Le faceva male, ma non poteva più essere ciò che si aspettavano da lei.
Dopo il diploma, Ginevra preparò uno zaino. Lasciò un biglietto: “Mamma, vi amo, ma devo andare. Perdonami”. Con cinquecento euro, messi da parte lavorando, comprò un biglietto per Roma. Quella sera, sul treno, pianse, sentendosi una traditrice. Ma nel suo petto batteva anche qualcosa di nuovo—la speranza. Voleva vivere, studiare, respirare, senza voltarsi indietro verso i corridoi degli ospedali. A Roma affittò una stanzetta, trovò lavoro come cameriera, si iscrisse all’università. Per la prima volta, si sentì una persona, non solo una funzione.
Francesca non le perdonò. I primi mesi la chiamò, gridò, supplicò di tornare. “Sei egoista! Lorenzo soffre senza di te!” La sua voce feriva Ginevra come un coltello. Mandava soldi alla madre quando poteva, ma non aveva intenzione di tornare. Con il tempo, le chiamate diminuirono, ma ogni messaggio era pieno di rimproveri. Ginevra sapeva che Lorenzo stava male, che la mamma era esausta, ma non poteva più portare quel peso. Voleva amare il fratello come una sorella, non come un’infermiera. Eppure, ogni volta che leggeva le parole della madre, si chiedeva: “Se fossi rimasta, chi sarei ora?”
Ora Ginevra vive la sua vita. Ha un lavoro in ufficio, amici, progetti per la magistrale. Ma l’ombra del passato non la lascia. Le manca Lorenzo, il suo sorriso nei giorni buoni. Ama la madre, ma non può perdonarle l’infanzia rubata. Francesca continua a scrivere, e ogni messaggio è un’eco di quella casa da cui Ginevra è scappata. Non sa se potrà mai tornare, spiegarsi, riconciliarsi. Ma sa una cosa: quel giorno, quando il treno la portò via da Firenze, salvò se stessa. E quella verità, per quanto amara, le dà la forza di andare avanti.