Con mia moglie, Isabella, siamo stati sposati per dieci anni. Lavoravamo insieme in un laboratorio a Milano, passando così tanto tempo l’uno accanto all’altra. Quando mi annunciò di essere incinta, ero al settimo cielo dalla felicità. Sognavo così tanto un bambino che non riuscivo a descrivere a parole la mia gioia.
Ma Isabella era una vera carriera. Non sognava la maternità. Desiderava una posizione dirigenziale e l’abbondanza finanziaria. Quando, durante la gravidanza, iniziò a sentirsi male, si allontanò dal lavoro che amava. Fu allora che capì: quel bambino avrebbe messo fine alla sua carriera.
La nostra piccola Sofia nacque proprio nel giorno previsto. Subito, mia moglie fu travolta dalla depressione post-partum. Odiava quella bambina. Voleva lasciarla all’ospedale e cancellarla dalla memoria. Isabella urlava per tutto il reparto, dicendo che a causa di Sofia aveva perso un anno intero e che era rimasta indietro.
E come si suol dire, peggio è peggio. Quando fui promosso, mia moglie andò su tutte le furie. Non si avvicinava nemmeno alla figlia, non la nutriva. Dovetti assumere uno psicologo, perché sapevo che non sarebbe finita bene. I sedativi davano un effetto, ma solo temporaneo. Isabella mi accusava di farle sprecare i suoi anni migliori, mentre io avanzavo nella carriera grazie a lei. Non solo: continuava a ripetere che quel posto sarebbe dovuto essere suo, non mio.
Quando mi mandarono in Austria per aprire una nuova filiale, proposi di partire tutti insieme. Ma Isabella rifiutò. Chiese il divorzio e se ne andò. Partii per l’estero con Sofia. Poco dopo, arrivò anche mia madre, perché qualcuno doveva occuparsi della piccola. Isabella tornò al suo vecchio lavoro e ancora oggi cerca di dimostrare a tutti di essere più meritevole della mia posizione.
Sì, è intelligente e responsabile, ma la famiglia non fa per lei. Capirà che la felicità non sta nella carriera, ma sarà troppo tardi.