Con mia moglie, Elisabetta, siamo stati sposati per dieci anni. Lavoravamo insieme in un laboratorio di ricerca, passando intere giornate l’uno accanto all’altra. Quando mi disse che era incinta, ero al settimo cielo. Desideravo un figlio così tanto che non trovavo parole per esprimere la mia gioia.
Ma Elisabetta era una carriera nata. Non sognava la maternità, ma un ruolo dirigenziale e il successo finanziario. Quando la gravidanza la costrinse a mettere in pausa il lavoro, capì che un bambino avrebbe segnato la fine delle sue ambizioni.
La nostra bambina nacque proprio alla data prevista, e subito mia moglie fu travolta dalla depressione post-partum. Detestava quella creatura. Voleva lasciarla all’ospedale, dimenticarla per sempre. Gridava in tutto il reparto che, per colpa di nostra figlia, aveva perso un anno e rimaneva indietro rispetto ai colleghi.
E come si suol dire, peggio che andar di notte. Quando ottenni una promozione, Elisabetta andò su tutte le furie. Non si avvicinava mai alla piccola, nemmeno per allattarla. Dovetti chiamare uno psicologo, perché sapevo che non sarebbe finita bene. I sedativi la calmavano, ma solo per poco. Mi accusava di sprecare i suoi anni migliori, mentre io, approfittandomi di lei, avanzavo nella carriera. E poi ripeteva che quel ruolo avrebbe dovuto essere suo, non mio.
Quando mi inviarono in Austria per aprire una nuova filiale, le proposi di venire con me. Ma Elisabetta rifiutò. Chiese il divorzio e se ne andò. Partii per l’estero con nostra figlia, e poi arrivò anche mia madre, perché qualcuno doveva occuparsi della neonata. Elisabetta tornò al suo vecchio lavoro e ancora oggi cerca di dimostrare a tutti di meritare la mia posizione più di me.
Sì, è intelligente e determinata, ma la famiglia non fa per lei. Un giorno capirà che la felicità non è nella carriera, ma sarà troppo tardi.
