Mio figlio è diventato padre a 15 anni, ma non è questo ciò che mi spaventa di più

Mio figlio è diventato padre a 15 anni, ma non è questo che mi spaventa di più.
Quando Matteo mi ha scritto quel messaggio da scuola«Puoi venirmi a prendere? È urgente»non potevo immaginare cosa stesse per succedere.
È salito in macchina senza guardarmi. Le mani gli tremavano, la felpa sbottonata come se fosse scappato dallaula. Ho provato a sdrammatizzare: «Hai fatto a botte? Hai saltato un compito?»
Ha sussurrato: «Non sono io è lei.» Così lho scoperto. La bambina non era più della sua ragazza.
Lei era uscita dallospedale senza nemmeno firmare i documenti.
E Matteo? Mio figlio, quindicenne, appassionato di videogiochi, goffo nei rapporti, che ancora imparava a radersi Lui aveva firmato.
Quella sera mi ha guardato dritto negli occhi e ha detto: «Se nessuno la vuole io la voglio.»
Allinizio ho pensato fosse uno scherzo. Poi ho capito che era serio. Terribilmente serio.
I giorni successivi sono stati un turbinio. Abbiamo contattato i servizi sociali. Ci hanno spiegato, con cautela, che Matteo non poteva farcela da solo.
Ma per ogni obiezione, lui rispondeva ostinato: «La tengo io. Sono pronto.»
Credevo volesse dimostrare qualcosa. Invece no. Sapeva cosa stava facendo. O almeno, ci provava.
Una sera, seduti in salotto davanti a quella creaturina nella culla rosa, fragile e indifesa, io non sapevo come saremmo riusciti ad andare avanti.
«Non voglio che si senta abbandonata» mormorava Matteo, cullandola. «So come ci si sente.»
Non ho capito subito. Poi ho visto la sua espressione. E ho capito: non parlava solo di lei. Parlava di sé.
Mio figlio, sempre così chiuso, che si rifugiava nei videogiochi quando la vita si faceva dura, che non mostrava mai emozioni finalmente si apriva.
«Ci sono io» gli ho detto dolcemente. «Non devi farlo da solo. Affrontiamo tutto insieme.» Ma la verità era che avevo paura.
Era troppo giovane. Eppure non potevo tirarmi indietro. Se lui si impegnava, io sarei stata al suo fianco.
I primi mesi furono un ciclone. Matteo imparò a darle il biberon, a cambiarle il pannolino, a calmarla quando piangeva.
Notti insonni. Crisi di pianto. Momenti di dubbio. A volte lo vedevo vacillare, ma cercavo di non sostituirmi a lui.
Doveva sentire che poteva farcela. Anche se significava cadere e rialzarsi.
Un pomeriggio, sfinito, mi disse: «Non ce la faccio, mamma. Lei merita di meglio di me.»
Quelle parole mi spezzarono il cuore. Ma lo guardai e risposi: «Se lo dici, vuol dire che ci stai provando davvero. Capisci quanto è importante. E questa è responsabilità.»
Così cercammo aiuto. Famiglia, gruppi di sostegno, assistenti socialistavolta con una vera rete intorno a noi.
Piano piano trovammo un ritmo. Matteo imparò a essere padre. A modo suo. Non perfetto. Ma autentico.
Poi, un giorno, la sua ragazza tornò. Aveva lasciato la bambina, ma poi aveva capito di non volerla abbandonare. Voleva condividere il peso. Insieme, cominciarono a ricostruire.
Matteo era ancora fragile. Ancora insicuro. Ma non era più solo. Quello che non mi aspettavo era quanto sarebbe cambiato.
Avevo paura che fallisse. Che fosse troppo giovane, troppo perso. Invece lho visto trasformarsi.
Non un padre perfetto. Ma un ragazzo che impara, che cresce, che fa del suo meglio.
Quel ragazzo che non riusciva a stare cinque minuti senza console, ora leggeva fiabe a sua figlia. Le insegnava canzoncine. Ridevano insieme. E quando lo guardavo mi insegnava qualcosa.
Noi genitori vogliamo sempre guidare i nostri figli. Ma a volte sono loro a mostrarci la strada. Matteo mi ha dimostrato che la maturità non viene sempre con letà, ma con il coraggio di affrontare la vita.
Mi ha ricordato che non serve essere perfetti per amare, lottare, imparare. E soprattutto, che non è mai troppo presto per diventare una brava persona.

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