Mio figlio è soggiogato: la paura di una madre che non riconosce più il proprio bambino.

Oggi ho scritto nel mio diario con il cuore pesante. Mio figlio è diventato un uomo senza spina dorsale. Quella donna comanda tutto, e io ho paura persino di aprir bocca. Il dolore di una madre che non riconosce più il proprio figlio.

Il giorno in cui Fabrizio si è sposato, conoscevo a malapena la futura nuora. Si erano conosciuti solo due settimane prima, e devo ammettere che la mia prima impressione fu inquietante. Trucco pesante, un vestito provocante, labbra gonfiate – nulla di femminile, solo pigrizia. L’impressione di chi è abituato a prendere, mai a dare.

I suoi genitori li vidi davanti al comune. Parlavano con una cortesia forzata, arrivati in una macchina costosa, che scoprii poi essere a noleggio – un taxi non era abbastanza prestigioso. Io e mio marito ci scambiammo un’occhiata: era chiaro che da loro non sarebbe venuta alcuna generosità. Il matrimonio, tra l’altro, lo pagammo noi. Tutto.

Ci trasferimmo in città pochi mesi prima della nascita di Fabrizio. Cresceva sensibile, un ragazzo dolce. Scriveva poesie, si rattristava per le piccole cose. In campagna sarebbe forse diventato un uomo forte, ma la città lo rese fragile. Fino a ventisei anni ebbe solo tre ragazze, e di quelle lo scoprii per caso, ascoltando frammenti di conversazioni al telefono. Non era mai stato aperto.

Viveva come tanti: tornava a volte ubriaco, puzzava di sigarette, ma poi sembrò smettere. Dopo il matrimonio, restarono a vivere con noi. Abbiamo un trilocale, noi e mio marito ci siamo rinchiusi nella stanza più piccola, lasciando quella grande ai giovani. Non importa, l’importante era che vivessero in pace. Ma la pace non arrivò mai. Solo litigi. O meglio, una voce sola – stridula, capricciosa, esigente. Era lei, Giada.

Di quello che i suoi genitori diedero loro non ho idea. Noi regalammo una busta con una bella somma. Anche i parenti, scoprii poi, diedero soldi. Ma gratitudine? Niente.

Giada quasi non usciva dalla stanza. Mangiava solo cibo a domicilio. Faceva la manicure in un salone e a casa non muoveva un dito. Le faccende domestiche “non erano roba sua”. Mio figlio mangiava quel che comprava da solo o avanzi nostri – in silenzio, con gli occhi bassi. Si vergognava. Non era amore. Era schiavitù.

Poi andarono via. Affittarono un appartamento vicino al suo salone. Ed eccola, l’”anima generosa”, che per la prima volta dopo mesi si siede con noi, beve un tè, mangia una fetta di torta. Mi sorpresi – non era a dieta? Quando salì in macchina, colsi nel suo sguardo disprezzo. O forse me lo immaginai. Ma quella sensazione – come un coltello tra le costole. È rimasta lì.

Ieri sono andata a trovarli. Giada, ovviamente, era al lavoro. Mi accolse Fabrizio. Stanco, svogliato. Mi offrì un tè, dicendo che era appena tornato dal lavoro e non c’era nulla da mangiare. Per fortuna avevo portato una borsa piena – almeno il frigo era pieno.

Scoprii che ora va al lavoro in autobus. La macchina è di Giada – “lei deve andare dai clienti, come fa con i mezzi pubblici?” Tra l’altro, il salone è a quattrocento metri. Ma a lei pesa, a lei dà fastidio. Lui, invece, a piedi, con la pioggia, col freddo. Perché così è comodo per lei.

Poi lasciò sfuggire che ha dei debiti. Parecchi. Uno di questi è per un viaggio in Egitto. Ma non per loro due. Solo per lei. Era “stanca” ed è partita in vacanza con un’amica. Non chiesi chi fosse questa “amica”. Lo vidi raggomitolarsi a quelle domande. Lo vidi soffrire in silenzio.

TornaiTornai a casa con le lacrime agli occhi, mentre mio marito scrollò le spalle dicendo: “Te l’avevo detto fin dall’inizio che sarebbe finita così”, e io capii che l’unica cosa che mi restava era aspettare che mio figlio si svegliasse da quest’incubo.

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